di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XXV domenica del Tempo ordinario – Anno A
Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1 20c-24.27a; Mt 20 1-16
Il linguaggio delle parabole è sempre un linguaggio “paradossale”, volto a mostrare la magnanimità di Dio e la distanza dei suoi pensieri da quelli degli uomini (cf. Is 55,8): nelle parabole la logica di Dio si incontra con la logica del mondo (di quel “mondo” almeno che racchiude in sé ed esprime l’opposizione e la resistenza a Lui) e ne svela tutto l’inganno e la sterilità. Le parabole rivelano un Dio che, diversamente da quanto farebbe ogni pastore umano, è disposto a lasciare le sue pecore incustodite, per andare a cercare quella sola pecora che si è perduta (cf. Mt 18,12-14 e Lc 15,3-7); le parabole presentano un Dio che, ben al di là di ciò che farebbe ogni altro padre umano, è disposto a riaccogliere il figlio che ha dilapidato la propria parte di eredità, restituendogli in pienezza la propria dignità filiale (cf. Lc 15, 11-32); le parabole consentono di conoscere un Dio che è disposto, diversamente da qualunque altro padrone, a “rischiare”, inviando il proprio figlio in quella medesima vigna della quale si sono impadroniti dei vignaioli malvagi, che hanno già maltrattato e ucciso quanti sono stati inviati a ritirare il raccolto (cf. Mt 21,33-44, Mc 12,1-12 e Lc 20,9-19).
Il Dio delle parabole, insomma, non è il prolungamento o la proiezione dei pensieri e dei sentimenti degli uomini, ma è Colui che, capovolgendo il comune modo umano di pensare e di sentire, restituisce l’uomo alla sua verità più profonda, consentendogli di vivere davvero quale figlio di Dio, creato a sua immagine. La parabola, dunque, non vuole essere capita, ma vuole essere attraversata o, meglio, vuole che le si consenta di attraversare il cuore dell’uomo, per trafiggerlo e operare in esso una separazione tra ciò che è vita e ciò che è morte. Al cuore della parabola matteana degli operai inviati nella vigna è il dinamismo che caratterizza la realtà del Regno nel suo dispiegarsi attraverso la storia degli uomini: la chiamata («Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna») e l’alleanza («Si accordò con loro»), da cui scaturisce una missione («li mandò nella sua vigna»).
Obiettivo della parabola è purificare la mente dell’uomo “religioso” dalla presunzione di valutare la propria relazione con Dio secondo la logica della prestazione e della efficienza produttiva, per la quale chi fa di più per Dio deve avere di più. Questa logica, infatti, produce “invidia” (vale a dire l’incapacità di vedere l’altro per ciò che è e di godere per ciò che ha, in nome di un personale bisogno di affermazione di sé e delle proprie fatiche) e “mormorazione” (vale a dire l’incapacità di riconoscere e accogliere con gratitudine quanto Dio ha fatto a vantaggio dell’uomo). A questa logica la nostra parabola intende contrapporre la logica della sequela, in forza della quale ciò che conta è la disponibilità a rispondere alla personale chiamata di Dio, qualunque sia il momento nel quale la si riceve e fidandosi unicamente della sua giustizia («quello che è giusto ve lo darò»).
Ma proprio questo è il punto: fidarsi di una giustizia che, essendo una cosa sola con la misericordia divina, sa guardare a ciascuno trattandolo da “primo”. Non è un caso che la parabola sia come incorniciata tra due detti analoghi del Signore: «Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi» (19,30); «Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (20,16). A rendere “primi” gli ultimi non è la condizione di “ultimi” in sé, quanto piuttosto la stessa bontà di Dio, a patto che da questa ci si lasci incontrare, accogliendo la Sua chiamata: Dio non chiama a “fare quanto più è possibile”, ma ad assumere la logica del Regno, facendo della bontà divina lo stile della propria vita.