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Commento al Vangelo di domenica 1 ottobre. La parabola dei due figli e il pentimento come trasformazione del sé

Commento al Vangelo della XXVI domenica del Tempo ordinario - Anno A

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXVI domenica del Tempo ordinario – Anno A
Ez 18,25,28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21, 28-32

Andrei Mironov (1975): “La parabola dei due figli” (2012), olio su tela; Russia, collezione privata

Come è possibile che coloro che avrebbe dovuto accogliere per “primi” l’Evangelo non lo hanno fatto? L’Evangelo di Matteo intende rispondere a questa domanda mediante la successione di tre parabole: quella dei due figli, quella dei contadini omicidi e quella del banchetto nuziale. Protagonisti della prima parabola sono due figli: invitati entrambi dal padre a lavorare nella vigna, il primo reagisce con un “no”, al quale segue un pentimento, che lo porta a fare ciò che gli era stato chiesto, mentre il secondo risponde con un “sì”, che si trasforma ben presto in un sottrarsi a quella fatica. La parabola fa emergere il problematico rapporto che può stabilirsi tra il fare e il dire: non sempre, infatti, tra queste due dimensioni vi è una piena corrispondenza e quando esse sono in contrapposizione è senza dubbio migliore la condizione di chi “fa” pur dicendo di non voler fare, piuttosto che quella di chi “non fa” dicendo di voler fare. “Primi” vanno considerati allora non coloro che appaiono tali (coloro, cioè, che dicono “sì” e poi non fanno), ma coloro che lo sono di fatto (e tra questi vanno annoverati anche coloro che pur dicendo “no” fanno).

Il contesto entro il quale sono inscritte le tre suddette parabole – vale a dire l’incontro nel Tempio con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo (21,23) – aiuta a cogliere chi siano i falsi “primi” ai quali Matteo intende riferirsi: i Giudei osservanti e i rappresentanti della Legge, se ci si riferisce alla vicenda di Gesù – e, dunque, al suo rapporto con Israele –, ma anche i Giudei in genere, se ci si riferisce al tempo della Chiesa – e, conseguentemente, all’esperienza dell’accoglienza dell’Evangelo da parte dei pagani e del suo rifiuto da parte del popolo ebraico. Tuttavia, proprio il riferimento ai destinatari immediati della parabola (vale a dire coloro che si reputano “giusti”), l’accento posto sul pentimento che consente al primo figlio di fare ciò che il padre gli aveva chiesto e l’amara conclusione del racconto («i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio») spingono a ritenere che la parabola possa essere letta soprattutto come un monito rivolto alla comunità dei discepoli del Signore, che viene così messa in guardia dal presumere che il rischio del rifiuto di Gesù sia ormai definitivamente superato.

In ogni tempo e in ogni luogo nei quali viene annunciato, l’Evangelo è esposto alla possibilità di trovare opposizione tra i suoi destinatari, perfino tra coloro che, almeno a parole, sembrano averlo accolto favorevolmente in un primo momento. La predicazione dell’Evangelo, d’altra parte, è esposta alla medesima resistenza vissuta da Giovanni il Battista: di lui, infatti, viene detto all’inizio dell’Evangelo che «Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano da lui» (3,5), mentre alla fine della sua predicazione Gesù fa notare che «Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto» (21,32). A questo punto, il narratore (Gesù/la comunità di Matteo/il predicatore dell’Evangelo) invita l’ascoltatore a uno spostamento della propria attenzione: dal contrasto tra i due fratelli a quello tra il primo figlio (che, pentitosi, obbedì alla richiesta del padre) e gli ascoltatori stessi, vale a dire tutti quei presunti giusti («voi»), che non riescono a credere, perché, in realtà, sono incapaci di pentimento e, dunque, di una vera obbedienza alla Parola.

La colpa di questi ultimi è ancora più grande, perché costoro non credono «pur avendo visto» (v. 32): se, infatti, il pentimento che apre alla fede esprime un movimento di capovolgimento di sé, ciò non è soltanto il frutto di un processo psichico intimistico e autoreferenziale. Il credere rimanda anche a un vedere, vale a dire a un’esperienza che ha una propria “oggettività”: che a questa si acceda direttamente o mediante la testimonianza di altri poco importa (altrove, nell’evangelo, sono detti “beati” coloro che non hanno visto e hanno creduto: cf. Gv 20,29). Ciò che conta è che di fronte a ciò che Dio dà a vedere di sé (e in qualunque modo ciò avvenga) ci si assuma la responsabilità della posizione scelta: credere, di certo, è un dono, ma di esso può godere solo chi è disposto, pentendosi, a farsi capovolgere da Dio.

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