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Il conte Antonio Filangieri di Candida e i tardi riflessi dell’arte di Pietro Cavallini in Sant’Angelo di Alife

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Una pagina di Storia dell’Arte, così come la meritano i lettori di ogni generazione: è il racconto di un uomo che fa del Matese il suo punto di ripartenza perché la vocazione che lo spinge ad interessarsi di arte ed esserne critico e divulgatore sia assecondata totalmente. Il racconto dell’autrice, Flaminia Candida Gonzaga, ci conduce fisicamente ed emotivamente nella Cappella di Sant’Antonio Abate in Sant’Angelo d’Alife, piccolo edificio adiacente la chiesa parrocchiale di Santa Maria della Valle: è qui che nei primi anni del 1900 Antonio Filangieri di Candida si reca una mattina, scorgendovi i segni che poi avrebbero consacrato al mondo dell’arte il piccolo monumento: gli affreschi interni avevano i chiari tratti distintivi della scuola del pittore Pietro Cavallini.  

Flaminia Candida Gonzaga – Fu in uno dei periodi trascorsi a Piedimonte d’Alife, a Palazzo ducale dove con la moglie Giulia primogenita di Roberto Gaetani di Laurenzana aveva la consuetudine di brevi soggiorni nei primi anni di matrimonio, che il conte Antonio Filangieri spedì a Benedetto Croce una cartolina postale in risposta a quella che aveva a sua volta ricevuto dall’amico napoletano. Era l’ottobre 1901 e con un certo imbarazzo confessava di non aver potuto ancora preparare l’articolo promesso e di non sapere neanche con quanto ritardo avrebbe mandato il suo lavoro. Poi, in realtà, non solo l’avrebbe scritto e terminato ma il suo saggio dedicato alla Galleria Nazionale di Napoli, uscito nel 1902 sulle “Gallerie nazionali italiane”, il periodico pubblicato per cura del Ministero della Pubblica istruzione, sarebbe diventato uno dei suoi scritti più interessanti sull’argomento.

Nelle poche righe inviate, dopo aver ammesso che sui quadri della pinacoteca napoletana non aveva nulla ancora di concreto, gli annunciava che il caso, e ci teneva a sottolinearlo, gli aveva suggerito un tema che forse sarebbe stato importante per un articolo. Scriveva infatti: Credo di aver trovato degli affreschi qui in cui è indiscutibile l’indirizzo del Cavallini! Se è così, la cosa è di grande importanza. Li studierò con calma e serenità.

Aggiungeva che Federico Hermanin, che peraltro insieme a lui aveva gravitato nella cerchia di Adolfo Venturi e che agli studi su Pietro Cavallini si stava dedicando, non era riuscito a trovare nessuna traccia del C. nel nostro paese. E si interrogava: Questo sarebbe un esempio?

Di ben più vasta entità e direttamente attribuibile al maestro era il grande affresco, di straordinaria bellezza, che era stato rinvenuto nella basilica di Santa Cecilia in Trastevere, a cui si doveva un rinnovato interesse nei confronti dell’artista attivo a Roma alla fine del XIII secolo, che si era poi trasferito a Napoli al servizio di Carlo d’Angiò. Per un caso fortunato erano stati rimossi gli stalli del coro delle monache benedettine per le quali era stato approntato quell’ambiente riservato, quando nel 1527 erano state trasferite lì da Campo Marzio. La necessità di un restauro aveva consentito di scoprire sulla parete interna della facciata di Santa Cecilia un maestoso affresco con la rappresentazione del Giudizio universale. Era di Pietro Cavallini, di cui non molto lontano si potevano ammirare i mosaici con le scene della vita della Vergine nell’abside di Santa Maria in Trastevere. Il conte Antonio Filangieri, che aveva vissuto per un certo periodo a Roma negli ultimi anni di università e in quello di specializzazione in Studi dell’Arte tenuti da Adolfo Venturi, aveva avuto modo di completare la sua conoscenza del Cavallini attraverso le opere successive che il maestro proprio a Napoli aveva realizzato per la corte degli Angiò.

Dovevano passare però alcuni anni prima che riprendesse in mano le fila della scoperta che aveva fatto. A partire dall’agosto del 1903 infatti era sembrato che avesse abbandonato del tutto i suoi studi, dopo essersi ritirato a vivere per buona parte dell’anno nel Palazzo di San Potito Sannitico. Ma già nel 1905 doveva riprendere le ricerche sull’Arte nel Mezzogiorno e, come ricordò nella sua commemorazione l’archeologo Giulio de Petra, le fece seguire da una monografia sull’influenza di Pietro Cavallini. Fu proprio il piccolo tesoro trovato nella cappellina di S. Angelo di Alife a ricondurlo sulla strada che aveva abbandonato.

Vi raccontò del caso, di come cioè gli fosse successo di aver attraversato un breve tratto di pianura alifana e di essersi arrampicato sull’aspro fianco di un monte dall’altra parte della vallata. Lì era approdato ad un pittoresco paesello del Sannio e vi aveva scoperto una piccola cappella in cui erano racchiusi ignorati e nascosti i ricordi dell’arte di Pietro Cavallini. Si trattava di una serie di affreschi che erano un vero gioiello del principio del Quattrocento.

La cappella si trovava e si trova tuttora quasi come deve essergli apparsa a Sant’Angelo d’Alife, addossata alla parete laterale esterna della chiesa madre di Santa Maria della Valle sul lato assolato che guarda verso la pianura. Il tempo e l’umidità hanno provocato vari guasti che restauri recenti hanno per quanto possibile attenuato. Allo sguardo che il Filangieri aveva rivolto agli affreschi, alcuni di loro erano risultati conservati benissimo e mostravano la loro bellezza originale, come in quasi tutta la volta e in alcune rappresentazioni sulle pareti, altri erano conservati solo in parte, qualcuno era quasi totalmente distrutto. La piccola cappella, di forma rettangolare con volta a crociera, conteneva di prezioso solo i suoi affreschi, l’antico altare non esisteva più e non restavano tracce di quello che doveva essere stato il pavimento. Della sua fondazione non era riuscito a trovare notizie, nessuna menzione negli archivi ecclesiastici locali, che riportavano solo vicende successive risalenti ai primi del XVII secolo, né si trovavano nella cappella epigrafi che ne indicassero l’origine o il fondatore. Ma proprio il rinvenimento degli affreschi di Santa Cecilia gli permettevano di fare confronti e di rintracciare in quel piccolo ambiente i segni della scuola del Cavallini, essendo convinto che proprio intorno a Napoli bisognasse cercare i documenti di un’arte, in cui l’influenza di quel maestro si rivelasse. Perché le tradizioni che mettono capo a lui non potevano spegnersi in una sola generazione di artisti.

Non aveva avuto nessun dubbio comunque nel datare gli affreschi ed anche se non poteva essere certo su quando la cappella fosse stata edificata, lo era sulle decorazioni pittoriche che faceva risalire al primo quarto del XV secolo. Nelle scene della Natività e dell’Adorazione di Magi, infatti, comparivano tre dame e tre gentiluomini i cui costumi ed in particolare i copricapi erano andati di moda in un breve periodo di tempo agli inizi del Quattrocento. Erano i grossi turbanti delle dame e i berrettoni enormi dei cavalieri a consentire la datazione, ne facevano fede acconciature analoghe nei dipinti di Pisanello e di Masolino da Panicale di quel periodo. La presenza poi di quelle figure nelle scene sacre potevano significare che il feudatario stesso di Sant’Angelo fosse il patrono della cappella. Antonio Filangieri ipotizzava che si trattasse di un membro della famiglia Severino, identificandolo in particolare in Luigi Severino, detto Loisello, che aveva ricevuto da re Giacomo, marito di Giovanna II, l’investitura del feudo di S. Angelo di Raviscanina nel 1417.

Sul lato destro della Cappella cui si accede da una porta archiacuta, due finestrini alti e sottili sono l’unica fonte di illuminazione. Nella parte centrale in successione dall’alto si presentano tre scene: l’Annunciazione, la Natività e l’Adorazione dei Magi. Oltre la finestratura due pastori guardano in alto, l’uno seduto con una zampogna tra le mani e l’altro in piedi appoggiato ad un bastone dalla punta nodosa, con davanti animali sparsi e perlopiù neri. Il Filangieri si sofferma su alcuni particolari, li descrive e li spiega con l’inserirli nella cultura e nella tradizione da cui derivano. La Madonna è nella grotta ma sta nel suo letto ricoperto da una coltre gialla con strisce rosse. Accanto a sé ha una figura femminile che ha avuto un ruolo nel parto, come riportano i Vangeli Apocrifi. Un po’ più in là è raffigurato il bagno di quello che avrebbe dovuto essere il Bambino appena nato ma Il Cristo che viene lavato è un uomo adulto. Ed anche qui giova rifarsi secondo lui non tanto alle tradizioni scritte sia canoniche che apocrife, quanto alla derivazione romana di un Gesù erculeo sulla base di antichi modelli. Nell’Adorazione dei Magi, la cattedrale gotica che è dietro al trono della Madonna gli ricorda i dipinti giotteschi della Basilica inferiore di Assisi. Anche nella parete di fronte compaiono tre zone, quella inferiore assai rovinata, quella di mezzo è il Transito di Maria, e in alto è la sua Incoronazione. È la scena centrale a presentare una rarissima forma iconografica, la Madonna consegna la propria anima sotto le sembianze di una fanciullina velata a quattro angioletti che devono portarla in cielo. E non è la sola rarità, perché l’anima della Vergine è replicata al lato dove S. Tommaso, il dodicesimo apostolo arrivato in ritardo, alza le braccia verso di lei per accogliere il nastro che gli sta calando. Di tutte le rappresentazioni di S. Angelo secondo il Filangieri è quella che presenta affinità iconografiche e stilistiche maggiori con l’arte del Cavallini, i personaggi hanno vesti e mantelli riccamente panneggiati, il colore rosso domina sulla scena insieme al biondo e all’oro dei capelli, i volti sono carnosi ed i lineamenti evidenziati. Poi ai lati, le rocce richiamano quelle dei mosaici e rassomigliano a grandi stalagmiti spezzate. Della scena superiore con l’Incoronazione nota la schiera di soavissimi angioletti che con vari strumenti la festeggiano. Agli affreschi della volta e a quelli della parete di ingresso dedica alcune annotazioni. Questi ultimi rappresentano alcuni episodi della vita di S. Antonio Abate a cui, fa qui notare lo storico dell’arte, è dedicata la Cappella. Quello che occupa il posto più importante raffigura il santo nella fuga dalla città di Patras, como Sanctu Antoniu esciu de la cidada de Padras et andao alo diserto. Nella città murata e turrita da cui con una fune viene calato un frate si è voluto riconoscere il paesello di S. Angelo ma lui non ne fa parola. Le due scene delle tentazioni meritano invece qualche osservazione in più nel suo testo perché si rifanno ad episodi narrati da S. Attanasio, discepolo e biografo del Santo. Ben realizzate le due figure con le cui sembianze si presenta il demonio, quella dello stranissimo mostro che somiglia ad un centauro e ancor più la bella e seducente giovane donna davanti alla quale si apre una voragine di fiamme ed a cui l’artista aggiunge in modo rivelatore sul capo due piccole corna. Anche gli affreschi della volta sono interessanti e bellissimi e sicuramente i colori con cui ne vengono esaltati tutti i particolari che vi sono raffigurati già portavano il Filangieri a scrivere di una fantastica decorazione gotica e ancor oggi colpiscono chi entra nella cappella con la luminosità che emanano. Vi si alternano i Padri della Chiesa e gli Evangelisti e ad ognuno corrisponde in basso una personificazione femminile delle Virtù, mentre al centro della volta a crociera sovrasta il tutto il Cristo benedicente.

Ma è purtroppo sul lato più rovinato, quello della parete di sinistra addossata all’altra chiesa, che si sviluppa l’affresco più interessante, una grandiosa concezione artistica. È l’albero genealogico della Vergine e di Cristo, l’Albero di Jesse. Nell’Evangelo secondo San Matteo è detto che Jesse generò David che fu re e che dopo questo re fino a Cristo vi furono ventotto generazioni. Nel Medioevo questa genealogia fu espressa in molte forme solenni e decorative, a seconda dello spazio consentito o del capriccio dell’artista. A volte l’Albero aveva una forma semplice, altre una forma complicatissima e la sua realizzazione fu fatta propria da scultori, pittori e vetrai fin dal XII secolo. Antonio Filangieri cita le vetrate di Chartres, di Saint-Denis e della Sainte-Chapelle di Parigi, insieme al bassorilievo in marmo della facciata del Duomo di Orvieto e al grande affresco nella Cappella di S. Lorenzo del Duomo di Napoli dove vi era la mano di un aiuto del Cavallini.

Il patriarca Jesse giace disteso per terra e dorme. Ed è da lui che nasce un tronco da cui si sviluppano i rami, man mano che l’albero cresce. La parte bassa dell’affresco di S. Angelo è in grandissima parte guasta. Ma la rappresentazione della profezia di Isaia è tutta lì anche se una parte è stata erosa dall’umidità: un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici (Isaia 11: 1-2). Nel tronco sono collocate una sull’altra le figure di re David, di re Salomone, poi una figura sedente che si vede poco e infine la Madonna in trono con il Bambino in braccio. È proprio l’evidente derivazione della composizione dall’affresco napoletano che permette di vedere le somiglianze nella disposizione, nei tipi iconografici e in tutto l’insieme dell’Albero. Così come è utile per colmare quelle lacune dovute al suo parziale deperimento. Su ciascun ramo dell’albero vi sono tre figure, i Profeti vi stanno in piedi, gravi, avvolti nei loro panneggiamenti, come senatori romani, e spiegano le loro profezie in mezzo a folti rami, ricoperti di foglie.

L’intera monografia venne letta dal conte Antonio Filangieri all’Accademia Pontaniana di cui era membro, nella tornata del 16 febbraio 1908, e fu poi pubblicata l’anno stesso col titolo Tardi riflessi dell’arte di Pietro Cavallini nel Quattrocento. Dedicava il testo all’amico, marchese Augusto Sanfelice, che gli aveva fornito le fotografie degli interni, consentendogli di farne un esame più approfondito. L’importanza degli affreschi meritava una più larga illustrazione sull’influenza della scuola romana, di cui testimoniavano la lunga durata nel Napoletano, e che si riproponeva di fare in seguito. Ma non sarebbe più ritornato su questo studio, nella sua vita fin troppo breve, e tuttora l’attribuzione degli affreschi rimane incompiuta, nonostante le indicazioni fornite da Antonio Filangieri a suo tempo.

Un ringraziamento particolare alla dr.ssa Teresa Leo della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce per avermi reso disponibile la corrispondenza indirizzata da Antonio Filangieri a Benedetto Croce e al dr. Francesco Pace per avermi fornito il testo conservato presso l’Associazione Storica del Medio Volturno della Memoria di Antonio Filangieri, Tardi riflessi dell’arte di Pietro Cavallini nel Quattrocento, R. Tipografia Francesco Giannini & Figli, Napoli, 1908

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