di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XXIX domenica del Tempo ordinario – Anno A
Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5; Mt 22,15-21
L’Evangelo di Matteo affronta per ben due volte, in contesti profondamente diversi, la questione dei tributi da pagare: la prima volta, al capitolo 17, gli esattori del tempio interrogano Gesù sul pagamento della tassa per il tempio (il didramma, con cui ogni maschio adulto contribuiva a sostenere le spese del santuario); successivamente, al capitolo 22, i discepoli dei farisei e gli erodiani pongono a Gesù una domanda sul census, e cioè il tributo che, a partire dall’occupazione della Palestina nel 6 d.C., ogni ebreo doveva pagare a Cesare (e questa è la prima di una serie di tre dispute con cui essi tentano di «coglierlo in fallo nei suoi discorsi»). In entrambi i casi, la disputa diviene occasione per un insegnamento sul rapporto tra i discepoli di Gesù e Dio.
Nel primo caso, infatti, Gesù sottolinea la condizione filiale della quale i suoi discepoli devono avere coscienza, affermando esplicitamente che il pagamento del tributo contraddice, in realtà, tale condizione: se, dunque, per non dare scandalo a coloro che non hanno ancora raggiunto questa consapevolezza, si può perfino accettare di pagare il tributo, questo atto di sottomissione al potere religioso non deve significare per chi lo compie una riduzione “mercantilistica” del proprio rapporto con Dio. Nel secondo caso, volendo affermare l’assoluta signoria di Dio, Gesù invita a distinguere, senza confondere, ciò che spetta a Dio da ciò che spetta a Cesare: se, infatti, l’immagine di Dio non può essere politicizzata – come facevano gli zeloti –, ancor più rischiosa è la divinizzazione del potere politico – cara al mondo romano.
Anche in questo secondo caso, Gesù, difatti, compie il gesto del pagamento, invitando a sottomettersi alla legislazione vigente: tuttavia, l’atto di versare il tributo viene introdotto da un insegnamento che svuota questo gesto di ogni connotazione idolatrica. Il rendere a Cesare quello che è di Cesare trova la sua limitazione e il suo fondamento nel rendere a Dio quello che è di Dio: al potere costituito si deve un’obbedienza che non prevale sull’obbedienza dovuta a Dio e non la sostituisce, poiché – secondo una prospettiva teologica già presente nel Nuovo Testamento – essa neppure sussisterebbe se Dio non lo volesse (cf. Rm 13,1: «non c’è autorità se non da Dio»). Se a Cesare va restituito ciò che porta la sua immagine (la moneta), perché è un suo diritto, a Dio va restituito ciò che di Lui è immagine, vale a dire l’uomo.
E così Gesù, che nel corso della prima disputa, si era soffermato sull’identità filiale del discepolo contro il rischio di un “riduzionismo religioso” della fede, nella seconda, proprio in nome di quella figliolanza, afferma l’assoluto primato dell’obbedienza a Dio, che diviene per il discepolo il criterio orientativo di un’esistenza che non è disposta a sacrificare l’uomo ad altri dèi. L’Evangelo, dunque, non intende offrire una soluzione al complesso rapporto tra fede e vita politica, di cui si limita a registrare, comunque, la criticità: esso invita, invece, i suoi destinatari a non smarrire il senso della propria “destinazione”. Sapendo a chi davvero appartiene, il discepolo del Signore è chiamato a fare della propria vita un costante atto di “restituzione” a Dio, ossia un ritorno nella libertà e per amore a Colui dal quale il peccato di continuo lo distrae e lo allontana. È intorno a questa consapevolezza che la vita cristiana può costruirsi, al di là di ogni frammentazione alla quale il “mondo” la espone, come vita “una”, come esistenza unificata che, pur riconoscendo la propria patria altrove (cf. Fil 3,20), sa abitare questa terra e amarla, senza mai smarrire la signoria del Padre che è nei cieli.