Giuseppe Casale* – L’espressione “terza guerra mondiale a pezzi”, coniata nel 2014 da Papa Francesco, oggi riecheggia tra gli analisti, dispiegando tutta la sua pregnanza. È innegabile: la nostra è un’epoca di conflitti disseminati eppur collegati in quanto a cause e corresponsabilità, effetti e rischi propagativi. È il lato oscuro di un’interdipendenza fatta di antagonismi locali ma intelligibili su un livello superiore: mondiale, come l’impatto dei conflitti del 1914-18 e del 1939-45.
Nella trama si inserisce anche la metamorfosi della guerra, ibrida in relazione alle modalità, certo, ma anche rispetto agli attori: non più soltanto statuali, a dispetto dei postulati moderni. Il tutto oggi ci viene chiarito dai teatri ucraino e israelo-palestinese, in scia con quelli di Libia e Siria. Ma il mosaico si compone di molte altre tessere, che importa pur sommariamente ricordare per un surplus di consapevolezza sull’impossibilità di confidare nella protezione della mera distanza geografica.
In Africa 31 Stati e circa 300 gruppi sono coinvolti in conflitti.
Dell’instabilità irradiata nell’area subsahariana dall’anarchia libica ha profittato il radicalismo islamista, che ha reso il Sahel la regione più flagellata dal terrorismo jihadista. Le carenze governative nel fronteggiarlo hanno dato occasione a una sequenza di golpe militari, con il concorso della sfida russa nella sfera egemonica della Françafrique. Così in Burkina Faso, Mali, Niger e Sudan, dove il tentato “golpe nel golpe” ha riattivato la guerriglia in Darfur e schermaglie di confine con il Ciad. In quest’ultimo l’aggravamento della malnutrizione dovuta al blocco del grano ucraino riagita i fronti rivoluzionari della guerra civile chiusa nel 2010.
In Etiopia le forze governative si scontrano con i separatisti dotati di sostegni esterni, prolungando in altre aree gli strascichi della guerra del Tigrai (2020-2021) chiusa con oltre 500mila morti e 2 mln di sfollati. Il governo della Nigeria viene impegnato da Boko Haram, e gli irredentisti e del Biafra.
Nella Somalia piagata dalle guerre civili (1986-2006) imperversano i mercenari dei signori della guerra locali e le milizie al-Shabaab, in un coacervo di collusioni con potentati economici e mafie internazionali. Così pure nella Repubblica democratica del Congo, già al centro del cosiddetto Olocausto nero (1996-2003) con 5 mln di vittime. Nonostante la missione Monusco, oltre cento milizie prolungano la crisi umanitaria, con connivenze esterne interessate alle risorse estrattive locali (incluse le terre rare, fondamentali sul mercato dell’energia verde). Nel mentre il governo torna a minacciare il Ruanda, accusato di finanziare le incursioni dei paramilitari M23.
Nelle Americhe, 7 governi e circa 40 tra cartelli del narcotraffico e milizie rivoluzionarie imbracciano le armi, mentre in Europa, oltre alle vicende ucraine, anche l’incandescenza tra Serbia e Kosovo riflette la tenzone (sino)russo-americana.
In Asia si contano il mosaico 27 governi e circa 500 soggetti non statuali.
L’operazione-lampo dell’Azerbaigian ha appena dissolto il secessionismo del Nagorno-Karabakh, sino a ieri sostenuto da Armenia, Russia, Iran e curdi, contro le truppe azere rifornite da Turchia, Israele e Pakistan: schieramenti speculari e rivalità incrociate le cui recenti riformulazioni (le intese russo-turche, il progetto Brics+ e l’avvicinamento armeno all’orbita Usa) spiegano l’esito “sacrificale” per cui dal 2024 l’area verrà reintegrata nell’Artsakh azero, con l’incognita sui rifugiati armeni.
In Pakistan, quiescenti le frizioni con l’India per il Kashmir, sono attivi gli scontri con islamisti e separatisti che pungolano una piattaforma atomica degli Usa sulla direttrice delle proiezioni arabiche di Pechino.
L’Afghanistan di nuovo talebano saggia la resistenza in Panshir dell’Alleanza del Nord e il terrorismo di Isis-K, che muove dalla provincia iraniana di Khorasan accusando Kabul di intelligenza occulta con gli Usa in funzione anticinese.
Sul 38° parallelo resta congelato il conflitto tra le due Coree, nonostante le provocazioni di Pyongyang, mentre gli eserciti di Filippine, Indonesia, Thailandia e Nepal fronteggiano al-qaedisti e maoisti.
In Myanmar l’etnocrazia bamar, mediante la giunta militare, è tornata alle pratiche genocidiarie sui rohingya, i cui sfollamenti minacciano la stabilità dell’intera regione, su cui Usa, India e Cina si contendono l’influenza.
In Medioriente l’attuale incendio israelo-palestinese si intreccia con le ripercussioni della guerra in Siria («il peggior disastro causato dall’uomo dopo la Seconda Guerra mondiale», secondo l’Alto Commissario Onu per i diritti umani), in cui imperversa una congerie concorrenziale di gruppi locali e potenze sia regionali sia globali.
Il Kurdistan resta bersaglio delle forze di Ankara che, sradicando l’indipendentismo curdo, intende e creare un cuscinetto securitario a sud, funzionale anche al disegno turco di prestarsi ad hub energetico d’Europa.
Il Libano, oltre alla crisi siriana, complici gli attacchi di Hezbollah, paga gli scontri con Israele lungo la Blue Line nonostante l’interposizione Unifil, nonché le ingerenze di Riad, Teheran e Parigi in una ingovernabilità che rende viepiù appetibili i giacimenti di gas al largo delle coste, sinora improduttivi per via delle vertenze con Tel Aviv sui confini marittimi.
Anche la guerra in Yemen origina dalla spinta delle Primavere arabe, deflagrando nel 2015 quando una lega a guida saudita prese a bombardare i ribelli houthi, sciiti sostenuti dall’Iran. Diviso il nord ribelle dal sud governativo, l’escalation con annessa emergenza umanitaria ha rappresentato l’ennesima guerra per procura, in questo caso contrapponendo Teheran e Riad interessate al controllo di uno snodo critico tra Oceano Indiano e Suez, ambito anche da Usa, Turchia ed Emirati (lesti nell’occupare Aden e Socotra). Le interlocuzioni tra sauditi e houthi nel 2022 hanno sortito una tregua, convalidata dallo storico riallaccio diplomatico tra Riad e Teheran procurato dalla Cina (in vista del progetto Brics+). Tuttavia, la stura alle ostilità prettamente locali rende l’armistizio un risultato ancora solo parziale.
La rassegna è approssimativa, ma non conta il nudo dato quantitativo. Importano invece le connessioni. A causa loro, nonostante le narrazioni che fanno esistere solo ciò di cui si parla, la realtà rivendica le proprie evidenze effettuali. Per esse, ciò che ieri sarebbe stato cronaca oggi è sussulto almeno preoccupato. Ciò basta a imporre attenzione e responsabilità, negando il lusso del disinteresse per le collegate sorti della famiglia umana.
* Pontificia università lateranense