di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XXXI domenica del Tempo ordinario – Anno A
Ml 1,14b-2,2b.8-10; Sal 130; 1Ts 2, 7b-9.13; Mt 23 1-12
Profondamente critico nei confronti di ogni interpretazione della Legge che sia “miope” (incapace, cioè, di guardare al di là di sé e del proprio orizzonte e di custodire il cuore dell’alleanza entro la quale e in vista della quale ciascuna norma è data), l’evangelo non lo è di meno nei confronti di ogni forma di scollamento tra la retta comprensione dello “Sta scritto” e la vita, specie quando a esserne protagonisti sono coloro la cui funzione (o la cui pretesa) è, in seno alla comunità, proprio quella di orientare l’interpretazione e la prassi del testo sacro: nulla di strano, dunque, se l’evangelo di Matteo, che al capitolo 15 (vv.1-20) mette la comunità dei discepoli del Signore in guardia dal primo rischio («E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione?»), al capitolo 23 (vv. 1-12) inviti a riflettere sulla possibilità di incorrere nel secondo («Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere»).
In entrambi i casi, interlocutori diretti di Gesù sono scribi e farisei, accomunati dall’incarnare, specie nella rilettura della comunità matteana, una prospettiva “religiosa”, in quanto fondata sulla preoccupazione di un’osservanza troppo (o esclusivamente) “formale” della Legge: dal loro modo di pensare e di fare tutta la successiva comunità cristiana (e in primo luogo coloro che la guidano) è chiamata a prendere le distanze, non imitandone la cecità («Lasciateli stare! Sono ciechi e guide di ciechi»: 15,14) e la doppiezza («non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno»: 23,3). Anche laddove l’interpretazione della Legge sia “corretta” (conforme, cioè, alle istanze profonde dell’alleanza), dunque, occorre compiere il passaggio alla prassi – alla attualizzazione esistenziale dell’insegnamento trasmesso e recepito –, perché si possa parlare di fede autentica e di autentico discepolato.
La costante tensione verso una retta comprensione della Scrittura, allora, rappresenta solo il termine medio tra il manifestarsi della volontà di Dio e la realizzazione di un’azione corrispondente a ciò che Dio effettivamente chiede, nell’atto di rivelarsi. Non si tratta, evidentemente, di trarre dalla Scrittura e di trasmettere unicamente ciò che un interprete è in grado di incarnare nella propria vita: se così fosse, nessuno potrebbe proclamare con autenticità la Parola e le sue esigenze. Il problema sta nel non “complicare” – appesantendolo in senso legalistico – il messaggio biblico, tanto da farne smarrire il nucleo essenziale e, di solito, chi fa questo è uno che non ha sperimentato sulla propria pelle la forza a un tempo esigente, ma anche semplificatrice e unificante della Parola.
È entro questa prospettiva che si può comprendere il divieto fissato dall’evangelo: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”…e non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra… e non fatevi chiamare “guide”». Nella comunità, cioè, nessuno può dirsi “al di sopra” degli altri, come suggeriscono i titoli di “rabbì”, di “padre” e di “guida”, che significano una condizione di asimmetria relazionale, dietro la quale può facilmente annidarsi una logica di “potere” sull’altro. Che ad essere comunicato sia un insegnamento religioso o meno (come suggeriscono i titoli di rabbì e di guida) o anche una vita biologica o spirituale (come suggerisce il nome di padre), ciò che conta è che la trasmissione avvenga dentro un tessuto che è definito dalla dimensione fraterna («voi siete tutti fratelli… uno solo è il Padre vostro…»).
La fraternità – che trova la sua radice nella comune figliolanza divina – è il nucleo del messaggio evangelico ed è questo “cuore” a dover essere custodito. Ciò che si è chiamati a trasmettere mediante la propria testimonianza, dunque, è prima di tutto la disponibilità ad assumere e custodire questa condizione relazionale (filiale e fraterna), che si traduce nella capacità di servizio reciproco. L’osservanza dei precetti non è mai, nell’interpretazione che ne offre Gesù, il cuore della Legge: essa, tutt’al più, ne è la manifestazione. Ma ciò richiede che a quel cuore si sia giunti e che da esso ci si lasci guidare.