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Commento al Vangelo domenica 26 novembre, Solennità di Cristo Re

Commento al Vangelo della XXXIV domenica del Tempo ordinario - Anno A

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXXIV domenica del Tempo ordinario – Anno A
Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15, 20-26.28; Mt 25, 31-46

Michelangelo Buonarroti: “Giudizio Universale” (1536-1541), Cappella Sistina – Musei Vaticani – Città del Vaticano

Predicare la venuta del Regno significa per la Chiesa richiamare l’attenzione dell’uomo (oltre che la propria) su di una realtà che, per quanto attesa e preparata, viene da Dio come suo dono, come compimento dell’intera vicenda umana in cui, finalmente, «non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4). Il Regno di Dio non verrà, allora, a cancellare la storia degli uomini, anche se in esso si manifesteranno l’assoluto primato di Dio e il compiersi – sia pure attraverso le vie tortuose della storia umana – del suo disegno di salvezza.

Il rapporto tra il Regno dei cieli e il “regno” degli uomini, dunque, esprime una certa rottura – se lo si considera in relazione al grado di pienezza di cui ciascuno di essi è portatore (diversamente da ciò che sarà nel Regno, infatti, nel tempo presente la pienezza è possibile solo come tensione e non come possesso) –, mentre esprime una certa continuità – se si considera che il secondo costituisce, sin dalla creazione dell’uomo, una tappa “obbligata” nel processo di instaurazione del primo (è attraverso la storia, infatti, che il Regno dei cieli si manifesta e si costruisce).

L’oggi della storia allora non è sganciato dal domani del Regno: il tempo presente costituisce, al contrario, lo spazio di responsabilità che Dio offre all’uomo, al quale è dato di scegliere se e come contribuire alla preparazione e alla costruzione del Regno. La responsabilità verso il Regno dice, in primo luogo, la serietà con cui Dio guarda alla libertà umana, che sempre può scegliere di essere per Lui o contro di Lui; conseguentemente, essa dice anche la serietà con la quale l’uomo è chiamato ad assumere la propria storia, al cuore della quale Dio stesso si rende presente per aprirla e orientarla alla sua meta in Lui.

È in nome di questa responsabilità che ogni vicenda umana non potrà sottrarsi a un giudizio: il giudizio è, infatti, l’altro nome del dialogo responsabile al quale Dio chiama l’uomo, giacché è in esso che, in un imperscrutabile intreccio di misericordia e di giustizia, viene restituito al sentire, al pensare, all’agire dell’uomo tutto il proprio valore costruttivo o distruttivo di vita. La grande scena del giudizio che l’evangelo di Matteo pone al termine delle parabole sulla vigilanza mostra con chiarezza che solo l’amore fa entrare nella vita: se il “vigilare” nella parabola delle dieci vergini significa capacità di essere equipaggiati per il tempo lungo, mentre nella parabola dei talenti indica disponibilità ad assumere responsabilmente il quotidiano rischiando di persona, esso diventa ora amore fattivo, capace di sporcarsi le mani per i più piccoli.

L’amore è l’unico, vero frutto di un cuore vigile: pertanto, è sulla concretezza dell’amore, e non su degli atti strettamente “religiosi”, che gli uomini (tutti gli uomini) saranno giudicati e “misurati” da Dio (cf. Mt 7,2). Se rispetto ai discepoli di Cristo, infatti, è nell’amore che si rende visibile e si mostra come autentica l’opera della fede, rispetto a tutti gli altri uomini, che non hanno conosciuto l’Evangelo o non hanno aderito a esso, l’amore dice l’autenticità della vita vissuta. Solo nell’amore, infatti, la vita si umanizza e solo nell’amore essa si divinizza. Non avere occhi, mani, cuore per l’altro, specialmente per l’ultimo, significa disumanizzare la vita: non solo quella altrui – alla quale non si riconosce il diritto di essere vissuta quando affetta da uno stato di indigenza –, ma anche la propria – alla quale si nega la possibilità di realizzare pienamente il proprio essere a immagine di un Dio che è amore e, dunque, apertura all’altro.

Solo chi ama, che ne sia consapevole o meno, incontra realmente nell’altro il Cristo, del quale, nell’atto stesso in cui ci si china sull’altro, si assume il medesimo stile di abbassamento sull’infermità e sulla miseria altrui. È questa la grande rivelazione che, consegnata alla comunità cristiana, attende ogni uomo alla fine della storia: è nella fedeltà a questa rivelazione che la Chiesa di Cristo prepara il Regno, lo serve e attende con ferma speranza che Dio sia tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28).

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