di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
I domenica di Avvento – Anno B
Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1 Cor 1,3-9; Mc 13,33-37
Il brano evangelico con cui si apre il tempo dell’Avvento costituisce la conclusione del cosiddetto “discorso escatologico” di Gesù nel Vangelo di Marco, l’unico ampio e ininterrotto discorso che l’evangelista mette sulla bocca di Gesù. Esso viene immediatamente preceduto dall’annuncio della distruzione del Tempio («Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta», 13,2), alla quale si ricollega una duplice domanda dei discepoli: «quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?» (v. 4).
Se la prima domanda (“quando?”) si riferisce direttamente alla distruzione del Tempio, la seconda (“quale il segno?”) sembra allargare la prospettiva agli eventi escatologici che a questa distruzione sono connessi. Dopo aver risposto alla seconda questione, mettendo in guardia dalla possibilità dell’inganno (vv. 5-27), Gesù dichiara l’impossibilità di conoscere l’ora della venuta del Signore («Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, eccetto il Padre», v. 32) e rivolge ai suoi discepoli una breve esortazione alla vigilanza («Fate attenzione, vigilate, perché non sapete quando è il momento», v. 33), con la quale si è introdotti alla conclusione del discorso.
L’invito alla vigilanza si basa sulla certezza che il Signore verrà: se il come resta problematico da decifrare (tanto da richiedere un costante affinamento della propria capacità di discernimento) e il quando resta ignoto (per cui non è sulla sua individuazione che bisogna fermare la propria attenzione), non così il fatto della Sua venuta, a motivo del quale si è messi in uno stato di vigile attesa. La “necessità” di attendere costringe i discepoli a riflettere sulla qualità del proprio tempo, a partire dal suo essere orientato alla venuta del Figlio dell’uomo: è proprio questo orientamento, infatti, che dà valore al tempo, nella misura in cui esso non comporta l’evasione dalla storia, ma la tensione a viverla assumendo fino in fondo la responsabilità che essa richiede.
Aderire alla realtà della propria condizione presente e assumerla responsabilmente è la condizione indispensabile per vivere alla presenza di Dio: chi si pone in questo orizzonte sa discernere nella concretezza della propria vita i segni di una presenza che è sempre attuale, al punto da riconoscere il tempo presente come un “oggi” di salvezza. L’uomo vigilante è colui che non si affanna per il domani, ma che non è nemmeno prigioniero del presente e, ancor meno, del passato: colui che vigilia è, infatti, impegnato ad abitare il proprio oggi, riconoscendolo, sulla base di una promessa (quella del ritorno del Signore), come “gravido” di domani.
L’apertura al domani vissuta dal cristiano, dunque, non ha il carattere della paura, ma quello dell’attesa fiduciosa e amante di quel nuovo che, in qualunque momento, Dio può immettere nella storia. Non meno che dagli inganni di quei falsi profeti che annunciano di continuo una fine imminente, il vangelo mette in guardia dall’atteggiamento di chi, non attendendo e non vegliando più, vive come se fosse morto (da addormentato, dice il vangelo). Che si rinunci a vivere perché si dispera del domani o, semplicemente, perché si è troppo attaccati al presente poco importa: ciò che conta è scegliere di vivere – nonostante le contraddizioni e le seduzioni del tempo presente –, senza farsi sommergere e trascinare dagli eventi; vivere è rispondere alla fedeltà di Dio con la propria fedeltà. È questo quanto l’avvento intende ricordare al cristiano: la venuta del Signore, qualunque sia la sua ora e in qualunque modo avvenga, chiede di essere desti e pronti a rispondere.