Noemi Riccitelli – Era il 2020 quando Ricky Gervais calcava il palco di Los Angeles per presentare l’edizione di quell’anno dei Golden Globes: un discorso di presentazione dissacrante, che non strappò neanche una risata a tutta la Hollywood lì presente (Gervais aveva tirato in ballo anche il caso Jeffrey Epstein), tant’è che il comico, sceneggiatore e attore britannico aveva promesso che non sarebbe mai più tornato (dopo aver già condotto la cerimonia di premiazione nelle annate 2010, 2011, 2012 e 2016).
E, infatti, lo scorso 7 gennaio non era presente a ritirare il premio, tra l’altro il primo del suo genere per la categoria “stand-up comedy”, istituita proprio quest’anno, per il suo recente spettacolo Armageddon, portato prima in giro live nei teatri per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e dal 25 dicembre disponibile su Netflix.
Autore di brillanti prodotti per il piccolo schermo, tra tutti la celebre serie TV The Office (2001), ma anche Derek (2005) e Extras (2013), così come più di recente la bellissima After Life (sempre su Netflix, qui la recensione di Clarus), Gervais si è sempre contraddistinto per un umorismo feroce e politicamente scorretto, asserendo sempre la possibilità di ridere su tutto, anche i temi più dolorosi e complessi, proprio per cercare di viverli e affrontarli al meglio.
Questa è anche la premessa di Armageddon: un titolo che fa riferimento alla fine del mondo la quale, il comico afferma, potrebbe finire per molteplici cause, il riscaldamento globale, le pandemie, la guerra nucleare, o la stupidità umana.
Un’introduzione tout court per uno show in cui Gervais rimane fedele alla sua corrosiva linea ispirativa, trattando quei molteplici e attuali temi che infiammano solitamente il dibattito pubblico: razzismo, identità di genere, malattie, disabilità.
L’artista, infatti, opera una dissacrazione di quelli che sono tradizionalmente considerati dei tabù, argomenti che è necessario trattare con riserbo, stando attenti a non urtare la sensibilità di chi ascolta.
Le sue sono parole dure, che vanno al cuore delle questioni, ponendo il pubblico in una posizione scomoda che induce a riflettere su atteggiamenti, pensieri, modi di fare che, talvolta, possono sembrare ipocriti.
È un pensiero, una scrittura pungente quella di Gervais, con la quale è delicato entrare in rapporto: non si ride certo di gusto, il riso che ne scaturisce, a volte, fatica ad aprirsi, il pensiero del “è troppo, ha oltrepassato il limite” sta lì sul chi va là, ma a ben pensarci le sue battute dispiegano anche le contraddizioni, le brutture, le anomalie di questo tempo.
E anche quei passaggi che possono sembrare non necessari, persino grossolani, un colpo gratuito insomma, si riconducono alla sua maliziosa visione della società e sì, strappano quel sorriso a chi guarda.
Un’ora circa di parole che fluiscono serrate, ma coinvolgenti, in cui Ricky Gervais è il solo protagonista in una scenografia semplicissima, quasi inesistente: un palcoscenico, lui di nero vestito, quasi a voler scomparire egli stesso per dare voce solo al suo pensiero che dice, ammiccando il pubblico presente nel teatro (anche quest’ultimo percepibile solo dal suono delle risate in sottofondo), “non si può controllare, si pensano a volte cose che non diremmo, faremmo mai” (che suona un po’ come un’ironica difensiva).
Armageddon, dunque, è una visione senza dubbio provocatoria, in pieno stile del suo autore e interprete, che potrebbe infastidire chi non avvezzo a questo genere di humor, ma a suo modo originale.
Un gioco sarcastico sembra anche l’assegnazione di questo Golden Globe proprio a lui, quasi ostracizzato dopo quella sera del 2020: Hollywood ha perdonato? Parrebbe di sì, ma forse Gervais ha ancora da dire.