In occasione della memoria liturgica di San Francesco di Sales, che la Chiesa cattolica celebra oggi, 24 gennaio, riportiamo la riflessione di Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede pubblicata da Agensir. La “buona comunicazione” è una “sfida”, che si concretizza nello “stare nel mondo“, riscoprendo l’idea che l’informazione, come l’istruzione, è un bene pubblico, e come tale va difeso. Perché da esso dipende il nostro futuro”.
Paolo Ruffini – Come ogni anno, nel giorno di San Francesco di Sales ci interroghiamo sul senso del nostro essere cattolici nel mondo della comunicazione. Su come non essere, non diventare, insipidi. E sul come evitare la tentazione di pensarci il tutto di un mondo che è comunque più vasto di noi; perché comprende non cattolici e non giornalisti, che pure sono – come noi – chiamati a rispondere alla sfida della buona comunicazione; e media che con una esemplificazione chiamiamo secolari per distinguerli da quelli cattolici, rischiando di cadere nell’errore di pensare noi stessi separati, divisi dal resto di cui siamo invece parte.
È importante fermarsi ogni tanto a riflettere su di noi. E allargare lo sguardo. Come singoli e come comunità. Come ci ha ricordato Papa Francesco nei giorni scorsi (cfr incontro con i partecipanti al simposio “Université des communicants en Église”, 12 gennaio 2024) la comunicazione è la nostra missione. Ma “comunicare per noi non è sovrastare con la nostra voce quella degli altri, non è fare propaganda; […] non è puntare tutto sull’organizzazione, non è questione di marketing; non è solo adottare questa o quella tecnica; […] è condividere una lettura cristiana degli avvenimenti; è non arrendersi alla cultura dell’aggressività e della denigrazione; è costruire una rete di condivisione del bene, del vero e del bello fatta di relazioni sincere; è coinvolgere nella nostra comunicazione i giovani”.
Il nostro compito è dunque stare nel mondo, non separarsene. Avere semmai l’ambizione di cambiarlo, per quella parte che ci è affidata; e l’umiltà di comprendere che la trincea dove si combatte il nostro destino non è un altrove rispetto ad una quotidianità dove la comunicazione stessa sta cambiando il suo DNA. Per questo il Papa insiste sul cuore, sulla sapienza che viene dal cuore, sulla comunicazione che senza cuore è incapace di vedere, di ascoltare, di capire e di trasmettere. “Essere giornalista – ha detto incontrando nei giorni scorsi i vaticanisti – è una vocazione, un po’ come quella del medico, che sceglie di amare l’umanità curandone le malattie. Così, in un certo senso, fa il giornalista, che sceglie di toccare con mano le ferite della società e del mondo. […]
Quanto bisogno di conoscere e di raccontare da una parte, e quanta necessità di coltivare un amore incondizionato alla verità dall’altra”. Se dunque il mondo sembra andare da una altra parte, smarrendo il senso più profondo del comunicare, se il giornalismo sembra destinato ad essere soppiantato dal marketing di opinioni fondate – come ha detto il Papa – “sulle sabbie fragili del chiacchiericcio e delle letture ideologiche” (cfr Udienza ai vaticanisti del 22 gennaio 2024); qui è la nostra sfida. Più grande di quel che pensiamo. Perché insieme possiamo costruire una rete che libera e non imprigiona. Possiamo restituire dignità al giornalismo e profondità alla comunicazione.
Possiamo guidare l’uso dell’intelligenza artificiale invece che esserne guidati. Possiamo ridare ad ogni essere umano il ruolo di azionista di un sistema di comunicazione che non punta alla massimizzazione del profitto, ma alla condivisione della verità. È un bel compito, un grande compito per i giornalisti cattolici, per tutti i cattolici. Rendere significante la nostra comunicazione. Proporci di cambiare anche i modelli economici quando rischiano di snaturarla; riscoprendo l’idea che l’informazione, come l’istruzione, è un bene pubblico, e come tale va difeso. Perché da esso dipende il nostro futuro.
Fonte SIR