di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
Quarta domenica del Tempo ordinario – Anno B
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
La parola di Gesù è una parola diversa, “altra” da quella dei tanti maestri che lo hanno preceduto sedendosi sulla cattedra di Mosé: essa è, anzitutto, parola di rivelazione («Il Regno di Dio è vicino»), che ordina un necessario ed urgente cambiamento di rotta («Convertitevi e credete all’evangelo»); tuttavia essa è anche parola dotata di una “potenza” (exousía), per la quale essa fa ciò che dice. La parola di Gesù, dunque, è portatrice di una novità che non riguarda solo il modo di intendere e di interpretare lo Sta scritto: la novità della sua parola è anche nella sua capacità di realizzare nell’uomo qualcosa di “nuovo”, che l’evangelo invita a comprendere come “liberazione” da ogni forma di male mortifero che abita l’uomo.
È proprio allo scopo di mostrare questa potenza del parlare di Gesù, che l’Evangelo di Marco presenta all’inizio dell’attività pubblica del Nazareno un esorcismo come suo primo “miracolo”. L’uomo prigioniero di uno spirito immondo, nel quale Gesù si imbatte, è nella sinagoga (luogo ove si è radunati da Dio per la parola e per il culto), nascosto e confuso tra quanti sono lì per pregare e ascoltare la Parola: è lì dove, in realtà, non dovrebbe essere. Il male si annida, ben nascosto anche tra gli uomini religiosi, magari in essi stessi, nelle loro strutture umane e perfino nelle strutture ecclesiali: tuttavia, proprio lì, la parola di Gesù lo snida!
Gesù non teme di incontrare l’uomo, anche quando questo è prigioniero del male: Gesù non teme l’incontro, perché non cede all’inganno che fa credere all’uomo di essere il male che lo abita. È il male, piuttosto, a non reggere la presenza di Gesù, tanto che è lo spirito immondo a non poter fare a meno di gridare e rivelare così la potenza di quella presenza («Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci!»). Nel plurale utilizzato dallo spirito immondo è forse, sottilmente, compreso anche l’uomo di cui egli ha preso possesso: quello spirito vuole l’uomo con sé, assimilandolo a sé.
Ed è a questa assimilazione che Gesù non cede, tanto da non darle alcun credito: nel singolare della sua risposta («Taci!»), Gesù distingue chiaramente lo spirito dall’uomo e impone al primo di lasciare il secondo («Esci da quell’uomo»), perché quell’uomo (che è segno di ogni uomo) non è suo territorio, sua proprietà. Inizia, così, «subito» (come opportunamente annota l’evangelo) la lotta con il male che abita l’uomo e lo rende schiavo: l’evangelo chiede di credere a questa potenza di Gesù che può liberare l’uomo; chiede di credere più a questo umile potere di liberazione che alle menzogne del male che lo abita e che spesso può risultare mascherato da bene.
È in questa capacità di liberare dal male che risiede la potenza della parola di Gesù ed è per il manifestarsi di questa potenza che la gente presente a quella scena resta stupita dal suo insegnamento. Il primo miracolo di Gesù, per l’Evangelo di Marco, dice allora che l’opera essenziale di Cristo è la liberazione dal male che abita l’uomo, che lo schiaccia, lo schiavizza, lo rovina. Gesù è venuto davvero a rovinare l’uomo vecchio: Egli solo può farlo, ma a patto di essere disposti a entrare nella logica del Regno che viene e che esige la disponibilità al cambiamento di sé, al decentramento dal proprio io malato e ingombrante, alla deposizione della personale brama di autodeterminazione e di quella philautía, quell’amore di sé, che non permette di amare dando la vita quella!