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Commento al Vangelo domenica 11 febbraio. La guarigione del lebbroso

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

Sesta domenica del Tempo ordinario – Anno B
Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45

Niel Larsern Stevns: “Guarigione del lebbroso” (1913). Skovgaard Museet Viborg – Danimarca

Incontrare Gesù è uscire dalla morte: è uscire da una condizione di incomunicabilità e di separazione. D’altra parte, se il Figlio di Dio ha scelto di assumere la condizione umana, lo ha fatto per andare incontro all’uomo che è sempre, in qualche modo, “malato di peccato”, afflitto dal male che lo isola e che si erge come barriera tra lui e l’A/altro. Metafora potente di questa condizione di morte che segna l’uomo è la lebbra, una malattia che, per le sue caratteristiche, narra disfacimento e impossibilità di incontri che non siano mortiferi, portatori di un “nulla” che moltiplica il “nulla”.

Non è casuale, dunque, che dopo la “giornata-tipo”, con cui, nel racconto di Marco, si dà inizio al ministero pubblico di Gesù e al cui termine si colloca la partenza verso nuovi villaggi dove annunziare ancora l’evangelo, il primo incontro che Gesù fa è con lebbroso. Per la legislazione ebraica un lebbroso è già, in qualche modo, un morto… uno, cioè, che viene tagliato fuori da ogni forma di relazione della quale una vita che voglia dirsi veramente umana non può fare a meno: per questo è uno che vede con i suoi occhi quello che ogni uomo teme, vale a dire il disfacimento della propria carne.

Un lebbroso incarna, così, l’impurità della morte che cammina per le strade del mondo e può incontrare altri uomini: e perché questa condizione di morte non sia trasmessa ad altri, il solo precetto della Torah che un lebbroso deve osservare è quello di isolarsi, di segregarsi dalla società, gridando «Impuro! Impuro!» (Lv 13,45). Il lebbroso nel quale si imbatte Gesù, però, non gli grida contro, per spingerlo ad allontanarsi, ma, al contrario, gli si avvicina e lo supplica in ginocchio: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Consapevole della propria condizione di morte, il lebbroso non punta la propria attenzione soltanto sul suo bisogno, per quanto legittimo, di essere un uomo e non un morto vivente: egli, piuttosto, è attento a ciò che Gesù vuole.

La sua è, al tempo stesso, un’affermazione di fiducia nella potenza di Gesù e un affidamento nelle sue mani: e questa scelta, il mettere la volontà di questo Altro in cima alle proprie scelte, si rivela per il lebbroso una via di purificazione e di vita, della quale egli stesso è chiamato a rendere testimonianza anzitutto a chi ha il compito di verificare l’autenticità della guarigione («va’ a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosé ha prescritto, come testimonianza per loro»). In fondo la purificazione definitiva, quella che si realizzerà in Gesù e attraverso Gesù per tutti gli uomini, avverrà per la stessa via seguita dal lebbroso; alla fine dell’evangelo, infatti, la Passione si aprirà con un’eco di quest’umile parola del lebbroso sulle labbra di Gesù stesso: «Non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).

Il lebbroso diventa, così, annunzio di quella via che Gesù stesso avrebbe percorso fino all’estremo: una via costosa che per lui significherà il farsi carico dell’impurità per inchiodarla alla croce (cf. Col 2,14). E che Gesù si faccia carico realmente dell’impurità del lebbroso lo mostra il suo gesto di toccare quell’uomo impuro: un atto inaudito che taglia fuori chiunque dalla purezza legale; toccando quell’uomo Gesù prende su di sé la sua morte (non diversamente da come farà più tardi con l’emorroissa, da cui si lascerà toccare, e con la bambina morta, che Egli stesso toccherà prendendola per mano: cf. Mc 5,21-43).

Questo gesto, al quale Gesù non si sottrae, comporta la contrazione della medesima impurità: per questo, nel suo racconto, Marco aggiunge che Gesù non poteva più entrare in città, ma se ne stava fuori in luoghi deserti: egli ha preso su di sé quella segregazione, quella esclusione. Chiamata a essere segno, strumento e luogo di liberazione da ogni forma di impurità e di morte, la comunità ecclesiale potrà adempiere a questo mandato a condizione di percorrere la medesima via del Signore: sporcarsi le mani con la miseria dell’altro, assumendo su di sé ogni umana ferita.

Amati amiamo, perdonati perdoniamo: ecco il cuore della guarigione che l’evangelo produce nell’uomo. Solo chi ama e perdona è davvero discepolo di Cristo, uomo nuovo capace di rendere quella testimonianza che egli chiede: solo chi lotta per l’amore e per il perdono è veramente suo discepolo, capace di rendere ancora credibile il Vangelo.

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