Silvia Rossetti – È quasi incredibile il modo in cui gli influencer, strane creature (vagamente mitologiche), riescano a conquistare l’incondizionata fiducia dei nostri giovani. Quasi… Perché, in realtà, il meccanismo di seduzione di questi moderni pifferai di Hamelin – a pensarci bene – si incastra scientificamente sulle fragilità, le solitudini e il vuoto valoriale di molti dei nostri ragazzi.
Chi sono dunque questi fascinosi personaggi mediatici? Per quale motivo riscuotono un successo a volte smisurato? Si tratta di blogger, videomaker, fotografi, content creators, YouTuber, Instagrammer, TikToker ciascuno “specializzato” in un determinato ambito, come food, beauty, gaming, fashion, design o travel, ma anche lifestyle, fitness, wellness, ecc. Postano con regolarità contenuti sui loro canali e interagiscono via chat, post, tweet con utenti e followers interessati ai temi e agli argomenti di cui si occupano.
Le loro storie e le live sono veri e propri trojan horse, con i quali si intrufolano all’interno della quotidianità delle persone, divenendone “amici” e “confidenti” virtuali. Offrono argomenti convincenti per disinnescare insicurezze e fragilità, soprattutto relativamente all’aspetto fisico e all’outfit. Colmano solitudini raccontando avventure e disavventure (reali o virtuali?) della propria vita, spalancando le porte delle loro abitazioni e le portiere delle loro automobili. Agitano con maestria i totem primari della nostra sgangherata contemporaneità: denaro, successo, bellezza.
Passano l’idea allettante che sia sufficiente essere convincenti e cavarsela davanti a una videocamera per raggiungere i vertici della realizzazione personale. Uniformano i desideri collettivi, massificando i gusti e le inclinazioni. Utilizzano un frasario spesso elementare, infarcito di espressioni gergali o “alla moda”, divulgando il “nulla cosmico”.
Affermano con convinzione che “fare gli influencer” sia una professione. Spesso e volentieri lo è davvero, infatti molti tra loro si occupano di pubblicità, peccato che lo facciano in maniera occulta, utilizzando metodi di persuasione alquanto discutibili. Altri, invece, sono semplicemente “fenomenologici”, espressione di una umanità che coltiva il sogno (spesso frustrato e frustrante) di una esistenza di lusso, o anche più semplicemente “scanzonata” e godereccia. Forse alcuni personaggi non sono neppure così deleteri, ma è lo sfondo vuoto sul quale si muovono che li rende comunque inquietanti.
Fanno leva sulla noia esistenziale e sul disagio interiore, offrendo una risposta “banale” e non faticosa, quindi allettante. Tamponano i cattivi pensieri, quelli che scuotono la coscienza o generano dubbi. Ottundono la mente promettendo un “falso” futuro, che non prevede impegno negli studi o nel lavoro. Rappresentano l’immagine riflessa e filtrata di una società decadente, incapace di individuare valori in cui credere, senza alcuna voglia di operare un percorso di crescita che si basi sull’accettazione e quindi il miglioramento di sé stessi, priva di fiducia nei confronti di un futuro reale.
Sono i grotteschi ologrammi di quel pericoloso narcisismo che serpeggia ormai in tutte le espressioni della nostra società. Mentre i pifferai di Hamelin attirano i nostri figli (e anche molti fra noi) su “strade lastricate di mirabolanti intenzioni”, sulle stesse strade – in ombra – pedalano fino allo sfinimento per una manciata di euro gli schiavi della società dei consumi e dell’apparire, i servitori dell’agio. Assieme a essi, sulle stesse strade, si muovono eserciti di persone che con i soldi non arrivano a fine mese, che non hanno denaro per curarsi o che vivono nell’abbandono e nel degrado.
Il potere delle illusioni diviene ancora più forte quando la realtà è difficile da affrontare, eppure la nostra sfida dovrebbe essere proprio questa: essere capaci, noi prima dei nostri figli, di spogliarci della paura del futuro e di approcciarci al presente con uno sguardo lucido e costruttivo, insegnando ai giovani che essere “visionari” non è un male se l’obiettivo è la costruzione di un futuro concreto e possibile e, soprattutto, se le “visioni” sono il frutto delle nostre vocazioni e dei nostri progetti e non patetiche reinterpretazioni dell’umano vivere prese a prestito sui social.