di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
V domenica di Quaresima – Anno B
Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33«Vogliamo vedere Gesù». In questa richiesta – che alcuni Greci saliti a Gerusalemme per la Pasqua rivolgono a Filippo –, è possibile cogliere il segno che è ormai giunta l’“ora” di Gesù… quell’ora alla quale, sin dagli esordi del Quarto evangelo, Gesù ha orientato i suoi discepoli, preparandoli attraverso un lungo itinerario fatto di segni e di parole. A Cana, reagendo alla sollecitazione della madre («Non hanno vino», 2,3), Gesù aveva dichiarato non essere ancora giunta la sua ora (cf. 2,4); al capitolo 12, invece, subito dopo l’ingresso messianico a Gerusalemme, egli può finalmente affermare che la sua ora è venuta: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato».
Se l’ora della gloria coincide, per il Quarto evangelo, con l’ora della croce (che è l’ora dell’innalzamento), la risposta alla richiesta di quei Greci desiderosi di vedere Gesù risiede, allora, nella possibilità di contemplare con uno sguardo illuminato dalla fede il Crocifisso, accedendo attraverso il suo volto sfigurato al volto del Figlio di Dio. A chi desidera “vedere” Gesù, dunque, l’evangelo dice che la fede in Lui non garantisce e non esige la visione: d’altro canto, a essere dichiarati beati sono coloro che «non hanno visto e hanno creduto» (20,29).
La fede si gioca, piuttosto, sulla capacità di aderire a Gesù, per essere lì dove lui ha scelto di stare («Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore»). È chiaro che l’invito di Gesù suppone la disponibilità a quello stare con Lui, che per l’evangelo è il primo motivo per il quale egli chiama alcuni a seguirlo (cf. Mc 3,13.14: «Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva… perché stessero con lui…»): ma questo non basta. Occorre fidarsi di Lui al punto da non temere di lasciarsi portare da Lui lì dove Lui è. L’immagine del chicco di grano che cade in terra e, una volta morto, produce frutto diviene così evocativa di quella necessitas passionis, alla quale Gesù va incontro e alla quale chiede anche ai suoi discepoli di non sottrarsi.
Accettare di “vivere la morte” non è per Gesù la resa a un destino o a una contingenza storica ineludibili: esso è, invece, un atto di somma libertà, mediante cui egli fa della morte l’occasione per narrare un amore, che non risponde al male con il male, ma che, al contrario, distrugge il male prendendolo e arrestandolo su di sé. Essere con Gesù nell’ora della croce, perdere e odiare la propria vita in questo mondo, dunque, non significa per il discepolo disprezzare la propria esistenza, ma essere consapevole che il valore e la pienezza della vita sono solo in Colui che, assumendo la morte nella libertà e per amore, ha fatto del dono di sé fino all’estremo la misura senza misura di ogni vita che voglia dirsi autenticamente umana.
Essere con Gesù dove Lui è costituisce, per il cristiano, non un atto puntale, che si consuma una volta per tutte (anche se è attraverso i singoli atti che si vive la concretezza della propria sequela di Cristo): si è davvero discepoli di Gesù quando, giorno dopo giorno, si fa del dinamismo pasquale – che è dinamismo di accoglienza della vita di Dio attraverso il dono della propria vita – lo stile della propria esistenza, assumendo la lotta che questo comporta con il male che abita dentro e fuori di sé. Solo quando il proprio desiderio di “vedere” è disposto a passare per il rischio del “credere” (che è, al tempo stesso, un fidarsi e un affidarsi) fino ad accogliere la propria croce – senza scandalizzarsi di quella di Gesù –, si può dire di essere davvero discepoli del Signore: solo allora, infatti, si accede a quella dimensione di alleanza “nuova”, che è il fondamento della vita di coloro che si riconoscono come “i suoi”.