di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
V Domenica di Pasqua – Anno B
At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3, 18-24; Gv 15, 1-8
Per il Quarto evangelo vivere quotidianamente l’essere discepolo significa “rimanere” in Gesù: il discepolo, in altri termini, non è uno che sta dinanzi a Lui (quasi precedendolo) e neanche più semplicemente dietro di Lui (semplicemente seguendolo), ma uno che soprattutto resta in Lui! È in questa prospettiva che può essere letta l’allegoria della vite, mediante la quale Gesù ancora una volta rivela se stesso per rivelare ai suoi di loro stessi: parlando di una vite, infatti, Gesù intende richiamare alla mente dei suoi ascoltatori la predicazione dei profeti, che spesso avevano paragonato Israele a una vigna deludente e capace solo di fruttificare uva aspra e selvatica (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21) … una vigna che aveva di continuo bisogno d’essere visitata dal Signore (cf. Sal 80,15: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna»).
Il modo in cui Gesù si serve dell’immagine della vita, tuttavia, è profondamente diverso dal modo in cui i profeti si erano serviti dell’immagine della vigna: sulle labbra di Gesù, l’immagine della vite diviene il modo mediante il quale egli si autodefinisce proprio a partire da questa categoria: «Io sono la vite»! Dicendo di essere non la vigna, ma la vite, Gesù – nella lettura che il Quarto evangelo fa della storia della salvezza – è presentato come Colui che viene ad abitare nella vigna infedele perché tutta la vigna possa prendere vita nuova da Lui. Da sé quella vigna darebbe solo frutti aspri e selvatici…
Gesù, vite vera, è allora venuto a rendere possibile il frutto, il vino della gioia, il vino delle nozze (al quale il Quarto evangelo introduce da subito il suo lettore/ascoltatore, presentando come primo tra i segni compiuti da Gesù il segno di Cana, ossia l’abbondanza del vino messianico!). La vite vera è Gesù, il quale rende fecondi i tralci che hanno il coraggio di farsi alimentare dalla sua stessa linfa! Vivere come tralci della vite che è Gesù è un fatto tutt’altro che immediato: esige coraggio, perché la linfa vitale, che Gesù è pronto a donare a chi rimane innestato in Lui, è esigente e chiede che si sia pronti a farsi espropriare per amore di Lui.
Se non si ha il coraggio di dimorare in Colui che è venuto a dimorare in mezzo agli uomini, ci si secca, si diviene non solo infecondi, ma anche totalmente inutili e “buoni solo per essere bruciati”. Il discorso di Gesù appare, naturalmente, tutto rivolto a chi è nella Chiesa e non a quelli “di fuori”: il rimanere è per i discepoli; il rimanere è per chi Cristo l’ha incontrato… per chi presume di stare “dentro”, ma poi con il “cuore” è fuori, latita e cerca vie continue di fuga dall’evangelo. D’altro canto, per chi ha avuto il coraggio di rimanere nella vite che è Gesù, il Padre, che viene a visitare questa vigna, fa anche un’altra operazione, particolarmente dolorosa: pota! Le potature di cui parla l’evangelo sono quei “no” necessari a chi ha il coraggio di rimanere in Cristo, perché rimanga effettivamente in Lui!
Non esiste un “manuale” delle potature: quali siano specificamente le potature, infatti, non si può dire in astratto e in assoluto: ciascuno deve e può porsi davanti alla propria esistenza per riconoscere quali potature il Padre ha già operato e per rendersi disponibile a quelle ancora necessarie e ulteriori. L’operazione della potatura è, infatti, un’operazione che non può dirsi compiuta una volta per sempre… i frutti che Gesù permette, allora, non sono i frutti che il mondo si attende: uomo che porta frutto è, per il mondo, chi ha successo, chi possiede, chi ha fatto carriera; uno che tutti guardano con ammirazione, invidia e magari perfino con un certo timore. I frutti dello Spirito vanno, invece, in tutt’altra direzione da quella del mondo: si deve essere disposti a farsi perdenti per il mondo! Ecco perché ci vuole coraggio per rimanere innestati in Gesù vera vite!