di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
VI Domenica di Pasqua – Anno B
At 10,25-27.34-35.44-48; Sal 97; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17
Una delle chiavi di lettura ricorrenti nel Nuovo Testamento per comprendere la portata della salvezza realizzata in Gesù di Nazaret attraverso gli eventi della sua vicenda terrena è senza dubbio la gioia. Se, infatti, vi è una gioia di Gesù – che è la gioia eterna del Figlio che vive nell’intima comunione d’amore col Padre nella potenza dello Spirito –, vi è anche una gioia in Gesù – che è quella che vive chiunque, avendo fatto esperienza di Lui, abbia deciso di rimanere in Lui: la possibilità della seconda si dà solo a partire dalla prima, nella misura in cui è Gesù stesso ad aver voluto che la sua gioia diventasse la nostra, non avendo considerato la propria condizione di intimità col Padre come un tesoro da custodire gelosamente (cf. Fil 2,6-11).
Per questo il Quarto evangelo ritiene che tutto debba condurre lì, a quella gioia che è il senso della vita, essendo pienezza di vita in Lui: Gesù, con la sua rivelazione di Dio, non solo ci ha narrato l’amore, ma ce lo ha anche donato, dandoci in tal modo la possibilità di vivere una vita nella gioia più vera. La gioia è l’altro nome della comunione con Dio: è l’altro nome dell’essere in Dio! All’inizio del capitolo 15 del Quarto evangelo, mediante l’allegoria della vite e dei tralci, Gesù ha cominciato a proclamare l’assoluta necessità di rimanere in Lui per prendere vita da Lui; subito dopo Egli dice cosa sia, concretamente, questo rimanere: il rimanere è rimanere nel suo amore. In Gesù, viene svelata la vera “dimora” dell’uomo, che è l’amore di Dio!
È da quella “dimora”, infatti, che l’uomo proviene ed è a quella “dimora” che è necessario tornare, per rimanervi! «Rimanete nel mio amore»: dicendo nel mio amore, Gesù non sta proponendo di rimanere in un amore qualsiasi (anche perché ciò che l’uomo chiama “amore” può avere facilmente le infinite facce delle mistificazioni e degli interessi di cui l’uomo è capace). Il suo amore è, invece, un amore concreto e visibile: esso è, in primo luogo, l’amore con cui Egli ci ha amati e questo significa che è necessario rimanere nella capacità di lasciarsi amare, lasciandosi avvolgere dal primato dell’amore di un Altro, come la tradizione giovannea insistentemente ricorda: «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi» (1Gv 4,10).
Il primato dell’amore di Dio, la passività che tale amore fontale chiede, libera l’uomo da ogni atteggiamento “religioso”, orientato a fare delle cose per Dio, per ottenerne in cambio amore e benefici. L’amore di Dio è sempre preveniente e Gesù ne è l’icona: Dio non ha atteso (e non attende!) la conversione dell’uomo per riconciliarlo a sé, ma «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). E nel Quarto evangelo voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (…). Rimanere nel suo amore, allora, non è la condizione per essere amati, ma è la possibilità dischiusa all’uomo dal primato del Suo amore: l’amore di Dio va solo accolto, non conquistato né tantomeno meritato. Rimanere nel suo amore, però, vuol dire anche non sottrarsi alla “qualità” di un amore che sa amare fino all’estremo (cf. Gv 13,1).
Giovanni insiste sul “come” dell’amore: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. […] Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato il comandamento del Padre mio e rimango nel suo amore. […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati». Questo “come” non è un invito all’imitazione, ma è rivelazione di una fonte: l’amore del Padre è fonte dell’amore del Figlio; l’obbedienza del Figlio alla volontà del Padre è fonte di una nostra rinnovata possibilità di obbedienza; l’amore del Figlio per noi è fonte del nostro amore reciproco! Ama come Lui, dunque, non chi ama quanto Lui, ma chi ama secondo lo stile del Suo amore: e il suo è un amore che lo ha condotto fino ai piedi dei suoi, a contatto con le loro miserie e le loro vergogne… è un amore che sulla croce permette di gridare: «è compiuto» (cf. Gv 19,30) … è un amore capace di dare la vita e, per questo, è anche l’amore più grande.
Non è per la sua volontà che l’uomo è salvato, ma per la libera accoglienza di ciò che Dio gli dona nel Figlio: il “nome nuovo” di amico! Sentire su di sé questo nome significa sentirsi ammessi nell’intimità dei pensieri, dei sogni, dei progetti di Dio e sentire che Egli desidera essere ammesso nei nostri: in questo nome di amico, che è nome dato dall’amore, bisogna però scegliere di rimanere. Questa la “dimora” del discepolo di Cristo.