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Commento al Vangelo domenica 8 settembre. “Effatà”, la guarigione del sordomuto

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di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)

XXIII domenica del Tempo ordinario – Anno B
Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Compiuto in territorio pagano, il miracolo di guarigione della figlia della donna siro-fenicia segna l’apertura di Gesù a un messianismo che è per tutte le genti, tanto da spingere il Nazareno a percorrere in lungo e in largo il territorio che è fuori dalla terra di Israele: è questo il contesto prossimo nel quale viene portato a Gesù un sordomuto. Non si tratta di un malato qualunque, poiché la sua malattia tocca due organi (le orecchie e la bocca), che, nella prospettiva della fede di Israele, sono intimamente connessi: chi non ha capacità di ascolto, infatti, neppure può parlare correttamente, come, poi, accade a quest’uomo alla fine del racconto, una volta che gli sono stati aperti gli orecchi.

Giuseppe Cassioli (1865-1942): “Gesù guarisce il sordomuto”. Conservato nella casa filiale di Firenze.

Questo uomo, dunque, diviene una “icona” della condizione dei pagani, i quali non hanno la capacità di ascolto (mancando dello She) e pertanto mancano anche della capacità di parlare: il loro parlare è confuso! Marco sottolinea che Gesù conduce quest’uomo in disparte, perché, per essere sanati dall’avere orecchie e non ascoltare (cf. Mc 4,9), è necessario un rapporto personale con Lui, facendo tacere il resto; le folle devono rimanere sullo sfondo e c’è bisogno di un silenzio fatto di un guardarsi negli occhi… di un lasciarsi guardare dagli occhi di misericordia di Gesù che è capace di sentire nel cuore il dolore per l’umana sordità e per l’umana incapacità di dire parole di senso.

Diversamente da quanto avviene per altri miracoli – per i quali Gesù non ha avuto bisogno di compiere gesti o di usare cose –, qui Gesù procede in modo molto “materiale”: tocca e usa la saliva, come farà in seguito per il cieco di Betsàida (cf. Mc 8,22-26). La sua parola si accompagna, in questi due casi, a un gesto che tocca gli organi coinvolti, designando il “luogo” in cui è necessario ristabilire la “funzione”! Ascoltare e parlare, come poi il vedere la luce, sono atti essenziali all’essere uomo e il miracolo di Gesù intende toccare l’uomo lì dove ci sono quella povertà e quel vuoto.

Il miracolo è accompagnato da un gesto, da un gemito e da una parola… Il gesto è il levare gli occhi al cielo: Gesù sa che l’ascolto è il grande dono del Padre, essendo Egli stesso a concedere quello She che è la radice di ogni Alleanza. Ed è da quello stesso Padre, che Gesù riceve la dynamis, la potenza, che gli consente di sanare, di guarire. Il gemito, che succede immediatamente a questo gesto, rivela la sua umanità: Gesù geme di fronte al dolore, al male che abita l’uomo, di fronte alla finitudine e alla fragilità, ma in questo gemito viene espressa un’attesa, una speranza… in Lui, infatti, la creazione può sperare nell’adempimento di quella promessa di salvezza che attraversa tutta la Scrittura e che Isaia aveva preannunziato con grande vigore: «Coraggio, non temete! […] Egli viene a salvarvi!» (Is 35,4).

Il gemito di Gesù è, in qualche modo, il partecipare del Figlio di Dio al dolore della creazione, alla sua incapacità: in un certo senso Gesù emette qui un suono inarticolato, non diverso dai suoni di cui è capace un sordomuto! Ma in questa infermità Gesù entra portandovi una speranza: quella della salvezza. E così la parola che Gesù aggiunge al gemito è «“Effatà” … “Apriti!”». È all’uomo chiuso nel profondo silenzio della solitudine che è il frutto del non-ascolto, è all’uomo incapace di dirsi e di dire, che Gesù rivolge una parola di liberazione.

Il racconto di Marco si conclude in un modo apparentemente incongruente con il resto del racconto: dopo aver aperto orecchi e bocca all’uomo, Gesù comanda di non dire niente a nessuno! In realtà, il comando di non parlare non è rivolto tanto all’uomo guarito, quanto piuttosto agli altri, a coloro, cioè, che l’hanno condotto da Lui. Costoro non obbediscono a Gesù, non avendo ben compreso ciò che egli ha fatto: essi si fermano al “meraviglioso” e parlano di sordi e di muti («Fa udire i sordi e fa parlare i muti!»), senza comprendere che è la sordità a produrre la parola bloccata.

Non hanno allora compreso che questo miracolo è un segno… e così parlano, ma a sproposito. Il comando a tacere che l’evangelista pone sulle labbra di Gesù sta, dunque, a significare che si può veramente parlare solo dopo aver fatto esperienza di Lui, dopo, cioè, che ci si è lasciati personalmente liberare dalla propria sordità e dalla incapacità di parlare. E così sono proprio quelli che avevano condotto il sordomuto a Gesù ad aver bisogno di andare da Lui per essere sanati… anch’essi, infatti, hanno bisogno di imparare ad ascoltare, prima di poter dire parole di senso…

 

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