Home Attualità Paralimpiadi, modello di umanità. Dallo sport alle carceri, strade per restituire dignità

Paralimpiadi, modello di umanità. Dallo sport alle carceri, strade per restituire dignità

Un salto da sogno, una proposta impegnativa ma che pone le basi di una nuova riflessione

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Alcuni atleti paralimpici italiani

Paolo Bustaffa – Le Paralimpiadi sono state e rimangono una testimonianza di dignità di persone debilitate e ferite, non potrebbe essere altrettanto per persone rinchiuse dietro le sbarre? Sono state uno sprazzo di azzurro nel cielo cupo delle guerre, delle tragedie domestiche, degli smarrimenti interiori di ragazzi e ragazze, delle squinternate vicende nell’arena politica. Sono state un monito a una società che i soldi e la integrità fisica siano l’unica risposta alle attese di una persona.

Le Paralimpiadi sono state uno spettacolo n0n solo sportivo che ha affascinato, commosso e scosso. Uomini e donne i cui corpi sono stati feriti da malattie e incidenti gravi non hanno esitato a mettersi in gioco,  a tendere allo stesso alto obiettivo.

Hanno saltato, hanno corso, hanno nuotato, hanno lanciato, hanno duellato, hanno cavalcato, hanno giocato di racchetta, rivelando una nobiltà d’animo e una dignità umana che valgono più delle medaglie vinte e non vinte.

Le loro storie si sono inanellate nei sorrisi dopo le gare rivelando sofferenza e fatica ma soprattutto tanta voglia di vivere e di sperare. Hanno, con la delicatezza che a loro appartiene in modo particolare, mandato un messaggio ai professionisti della lamentela, li hanno invitati a sollevare gli occhi dalle loro difficoltà e a guardare più in alto e più lontano: salto in alto e salto in lungo.

Uno spettacolo che trasmesso dai media accanto a notizie dolorose tra le quali quelle che venivano dalle carceri. Dall’inizio dell’anno in quelle italiana si sono suicidate oltre 70 persone il più delle volte giovani di età pari a quelle degli atleti delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi. L’ultimo Youssef, tunisino, aveva diciotto anni ed è morto carbonizzato il 6 settembre a San Vittore. Fuggito dall’Egitto era finito nelle mani dei trafficanti libici. Era stato in una comunità terapeutica ma era finito inspiegabilmente in carcere. Il suo sorriso che appare nella foto quando era in comunità si è spento tragicamente.

La notizia è arrivata, come una scossa elettrica, mentre a Parigi si stava svolgendo la terzultima giornata dei giochi.  E chissà perché si è acceso un lampo con l’immagine di giochi olimpici per coloro che nel carcere stanno ricostruendo la propria vita dopo il male compiuto e anche per quanti, in particolare le guardie carcerarie, condividono la pesantezza di giornate dietro le sbarre.

Le Paralimpiadi sono state e rimangono una testimonianza di dignità di persone debilitate e ferite, non potrebbe essere altrettanto per persone rinchiuse dietro le sbarre?

Certo, non sarebbe un percorso facile ma, come per altri casi, sarebbe il risultato di un modo più umano di affrontare situazioni laceranti come sono quelle delle carceri. Si potrebbe andare oltre l’asticella della rassegnazione se società e politica avessero più consapevolezza del loro ruolo nella costruzione di un futuro migliore.

Forse è solo un salto nel sogno. Spesso però nella storia i sogni sono diventati realtà.

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