di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XXV domenica del Tempo ordinario – Anno B
Sap 2,12.17-20; Sal 53; Gc 3,16 – 4, 3; Mc 9,30-37
Come il primo annuncio della passione (cf. Mc 8,31-33), così anche il secondo ha trovato l’incomprensione e il cuore duro dei discepoli, i quali «non comprendevano queste parole» (quelle che annunciavano la passione) e inoltre «avevano timore di interrogarlo», vale a dire che avevano paura di chiedergli spiegazioni: i discepoli risultano, così, prigionieri di un “non capire”, ma anche di un “non voler capire”, nonostante Gesù abbia parlato loro con parresía (apertamente, con franchezza: cf. Mc 8,32).
Ma sono proprio le cose dette “senza veli” a spaventare, anche perché la passione, in questo secondo annunzio, viene meglio specificata da un particolare tutt’altro che secondario: qui, infatti, non si parla più di anziani, capi dei sacerdoti e scribi, ma di uomini («Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini»), il che significa che non basta non far parte di quelle categorie storiche per essere innocenti in questa storia di dolore del Figlio dell’uomo! Nella morte di Gesù non sono coinvolti soltanto Giuda, o quegli Ebrei, o il Sinedrio, o Pilato con i Romani – per quanto siano costoro a esserne responsabili materialmente e storicamente: in quella morte sono coinvolti tutti gli uomini, le cui mani sono macchiate del suo sangue che, paradossalmente, ha lavato e salvato tutti!
Le parole di Gesù suscitano una “crisi” nel gruppo dei discepoli, dal momento che esse non corrispondono a ciò che essi avrebbero voluto ascoltare: esse non corrispondono alle loro aspettative più profonde, che sono tutte centrate sul proprio “io” e sulle sue “dimensioni ingombranti”. Per Marco, infatti, l’incomprensione e la chiusura dei discepoli ha un motivo ben preciso: essi non capiscono e non vogliono capire perché sono tesi a cercare primati, privilegi e potere: «Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande». I Dodici, dunque, sono per la via (espressione che indica la sequela di Cristo), ma invece di seguire davvero Gesù, seguono sé stessi, le loro idee, i loro miseri deliri di potere.
Gli sono vicini, eppure sono infinitamente distanti da Lui; lo hanno davanti agli occhi, ma in realtà non lo conoscono! Essi pensano che il Cristo debba essere “potente”, perché vorrebbero che Egli li confermasse nella loro brama di potere! Pazientemente, però, Gesù comunica ancora ai suoi le vie incredibili e paradossali che vuole e “deve” seguire: quelle di chi sceglie l’ultimo posto… e lo fa con delle parole («Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti») e con un gesto («E preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro…»)! Il bambino che Gesù pone al centro, abbracciandolo, è segno di quell’ultimo posto, che Egli vuole abbracciare per indicare al mondo le vie del Padre.
Il bambino che qui Gesù abbraccia è, inoltre, icona della condizione di im-potenza propria dello schiavo (in greco pàis significa bambino, ma anche giovane schiavo): ai discepoli che sognano di ottenere potere, Gesù presenta un’icona di impotenza e dichiara che chi accoglie quella debolezza nel suo nome accoglie Lui stesso e, paradossalmente, Dio. È questa la sola via per accogliere Lui e la logica del Regno! L’evangelo intende così affermare che chi è prigioniero della logica del potere non può accogliere la debolezza del Crocifisso, ma è vero perfino che quanto più ci si oppone alla logica della croce tanto più ci si espone a essere soggiogati da logiche di forza e di potere. È questa l’amara esperienza che lo spazio del “noi” ecclesiale spesso si trova a vivere, oggi, come ai tempi di Gesù.