di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XXVIII domenica del Tempo ordinario – Anno B
Sap 7, 7-11; Sal 89; Eb 4, 12-13; Mc 10, 17-30
Con il racconto dell’uomo ricco, il lettore/ascoltatore dell’evangelo è posto dinanzi a una richiesta di sequela che ha un esito fallimentare, a motivo di qualcosa che si frappone tra il chiamato e Gesù come un ostacolo insormontabile: il possesso! Se la libido amandi è chiamata a essere trasfigurata nella via della fedeltà che narra e celebra il Dio fedele (cf. 10,1-12), la libido possidendi viene trasfigurata attraverso la via della condivisione («Vendi
Il “tale”, protagonista del racconto di Marco, si accosta a Gesù per essere rassicurato, limitandosi a chiedere indicazioni su un ulteriore “da fare” allo scopo di ottenere la vita eterna («Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?»). Per quanto “religiosa”, la domanda di questo tale – che concepisce la vita eterna come un “premio” da meritare – non suscita in Gesù altra reazione che quella di un amore capace di arrivare al cuore dell’altro («Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò…»): Gesù legge “dentro” questo tale e scorge in lui una possibilità di costruire, certo non senza fatiche, un uomo nuovo! Il problema è che tra il “sogno” di Cristo e il profondo di questo tale si erge un “muro” che egli, in realtà, non è disposto ad abbattere e di fronte al quale Gesù stesso non può alcunché, essendo in gioco la libera volontà dell’altro.
Si tratta del muro delle “proprie cose”, sulle quali, spesso, neppure a Gesù si consente di dire una parola, perché è da esse che si fanno dipendere la propria identità e la propria vita, qui, su questa terra! Nella prospettiva religiosa del tale, la vita eterna (ossia la piena comunione con Dio) non può toccare le proprie cose, ma può solo chiedere un “fare”, che, in realtà, dovendo misurarsi su quelle cose, ne risulta di fatto limitato. Posto di fronte alla esigente proposta di Gesù («Va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri…; e vieni! Seguimi!»), l’uomo ricco non risponde: la richiesta di Gesù è ai suoi occhi uno “sconfinamento” indebito, perché essa non si limita a orientare il fare, ma pretende di smascherare l’inganno dell’avere: avere molti beni è, in realtà, un mancare di qualcosa («Una cosa sola ti manca»), perché i beni imprigionano e paralizzano.
E il silenzio del tale diviene silenzio mortale, nel quale risuonano non più parole, domande, ricerche, ma solo i suoi passi all’indietro, forse imbarazzati, ma purtroppo sicuri. Il dramma di questa scena evangelica sta in quella tristezza che invade tutta la vita di quel tale, al quale Gesù offre un’identità e una sicurezza diverse da quelle che egli aveva costruito sino a quel momento: eppure l’amore di Gesù non è sufficiente a staccarlo dal suo amore per le proprie certezze e quell’uomo resta per il vangelo senza nome, preferendo la tristezza di una vita comoda alla gioia di una vita sensata, alla sequela di Gesù! E così resta solo, triste e, in qualche modo, quella tristezza si riverbera anche su Gesù: Gesù viene presentato nell’atto di volgere lo sguardo attorno, ai suoi discepoli, forse per trovare conforto per l’amore rifiutato, nella contemplazione di coloro che l’amore sembravano accettarlo.
Anche costoro, però, ragionano in maniera troppo religiosa, pensando la vita eterna come un bene da dover guadagnare e, dunque, presentandosi a Gesù con le loro buone opere (nel vangelo di Matteo, Pietro chiederà in maniera esplicita: «che cosa, dunque, ne avremo?»). Anche i discepoli dovranno imparare a non perseguire più la salvezza secondo la logica del premio. La vita che Dio promette, infatti, non è la ricompensa per qualcosa che si è fatto o si è lasciato: essa è possibilità di accogliere una fecondità che è nello spazio del dono («non c’è nessuno che abbia lasciato… che non riceva già ora»).