di Padre Gianpiero Tavolaro
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XXIX domenica del Tempo ordinario – Anno B
Is 53,2.3.10-11; Sal 32; Eb 4,14-16; Mc 10 35-45
Dopo l’amore e il possedere, la terza dimensione della vita dell’uomo che deve essere attraversata dalla novità dell’evangelo per una vera sequela di Gesù è quella del potere. L’uomo esercita costantemente un “potere”, nella misura in cui tutto ciò che egli pensa, dice, compie esprime ciò che egli può pensare, può dire, può compiere. Il potere rappresenta per l’uomo una dimensione altamente necessaria alla formazione della propria personalità, perché, di per sé, il potere definisce il campo del proprio agire e, in quanto tale, dovrebbe dire anche il “limite” oltre il quale non bisogna spingersi: c’è sempre, infatti, qualcosa che non si può pensare o dire o fare.
Ed è proprio nell’assunzione del limite da parte dell’uomo, che la dimensione del potere si rivela in realtà la più ambigua e pericolosa: il ritenere, infatti, di potere tutto, il non accogliere il limite che è costitutivamente implicato nel potere umano (in tutte le sue forme), fa precipitare l’uomo in un pericoloso “delirio di onnipotenza”, che rende il suo potere illusoriamente “assoluto”, sciolto, cioè, da ogni vincolo con ciò che dall’esterno (si pensi all’altro) o dall’interno (si pensi alla propria natura o al proprio carattere) lo riporti al senso del proprio limite. A questo proposito, l’evangelo di Marco offre, nella richiesta dei figli di Zebedeo («Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo… Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»), l’esempio concreto di un desiderio animato da un “potere” che non riconosce il proprio limite.
Giacomo e Giovanni, infatti, desiderano gustare ed esercitare il potere del Messia. La Passione annunciata già tre volte non ha prodotto nulla nel moto dei loro desideri e dei loro pensieri: essi cercano altre cose, hanno altre priorità. La loro sequela è ancora inquinata: pensano a un trono, a dei posti di “potere”. È così palese la loro voglia di accaparrarsi potere, che gli altri dieci si sdegnano con loro, non tanto, forse, perché non ne condividono la logica, ma semplicemente perché vedono minacciati i propri desideri di potere. Gesù tenta anzitutto di riorientare il desiderio dei due fratelli, riportandoli al loro limite: «Gesù disse loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?”».
È interessante notare che, anche di fronte all’insistenza dei figli di Zebedeo («Gli risposero: “Lo possiamo”»), Gesù, piuttosto che reprimere il loro slancio “cieco”, li mette di fronte alla possibilità di poter arrivare a fare qualcosa che è al di là del proprio limite attuale («Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati»), a patto che si sia disposti a una lotta con se stessi… una lotta condotta nella consapevolezza che il potere che Gesù propone non è mai sganciato dall’altro (Dio, il prossimo) e dalla coscienza di ciò che si è (della propria incapacità attuale).
Il potere che Gesù propone è la possibilità di morire per l’altro, di dare la propria vita per amore (suo “trono” sarà infatti la croce) e questo sarà possibile anche ai discepoli, quando in essi la presenza dello Spirito permetterà di vivere la lotta – come è stato per Gesù, sin dall’esperienza delle tentazioni nel deserto –, nella libertà dei figli e non nella ribellione degli schiavi. È solo dentro questa fiducia filiale che i discepoli potranno fidarsi del progetto del Padre e, come Gesù, non preoccuparsi più dei posti da occupare nel Regno, perché quando il proprio desiderio di potere sarà convertito “secondo Dio”, ciò che conterà sarà stare con Lui (cf. 1Ts 4,17). I discepoli di Gesù devono allora uscire dalle strettoie del potere assoluto e dei primi posti: solo in questo modo la Comunità cristiana, “altra” rispetto a ogni altro modello mondano, saprà mostrare la bellezza e la novità del Regno.