Giuseppe Casale* – Un incendio tanto più è indomabile quanto più deriva dall’innesco di diversi focolai. L’eterogenesi dei fini che incombe sugli attuali conflitti regionali rende calzante la metafora. Anziché scaricare le tensioni tra superpotenze in teatri periferici (come ancora accadeva nella Guerra fredda), essi fomentano lo scontro nel cuore dell’ordine globale, con il concorso dei proxy locali che soffiano sul fuoco dell’allargamento.
Il vertice Brics di Kazan annuncia altri passi verso il multipolarismo, tra cui la dedollarizzazione dei mercati. Non casualmente la vigilia si apre in un clima rovente. La Nato, con il plauso baltico-polacco, allestisce in nord Europa una maxi-esercitazione per lo scenario di una guerra nucleare con la Russia. La Cina invece simula il blocco navale di Taiwan, a monito del sostegno Usa all’indipendenza dell’isola, funzionale a preservare il monopolio talassocratico sull’Indo-Pacifico.
Pechino prevede la riunificazione entro il 2050, rivendicando la sovranità sull’isola in nome dell’“Unica Cina” avallata dagli Usa stessi e sancita con la Risoluzione 2758 del 1971 dall’Onu, ove Taiwan non possiede seggio di Stato indipendente. La Repubblica popolare predilige il lento pede, sostenendo gli unionisti di Taipei anziché programmare l’invasione. Tuttavia, laddove Washington si impantanasse altrove in un conflitto diretto, Pechino potrebbe cedere alla tentazione. Tanto più se la Casa Bianca aprisse le porte a un’amministrazione sensibile all’interventismo neocon del Project for a New American Century.
É da escludere per ora che la tentazione possa scaturire dall’ingaggio Usa in Ucraina, dato il deterrente atomico della Russia. Oltre le apparenze, significa molto la freddezza verso il “Piano della Vittoria” svelato da Zelensky in tema di ingresso di Kiev nella Nato (il Trattato atlantico lo preclude a chi è già guerra, per scongiurare l’applicazione automatica dell’art. 5) e l’installazione di basi missilistiche. Considerando che entrambi i punti corrispondono al motivo primario dell’invasione russa, è altresì inverosimile anche il Piano sia spendibile come leva negoziale con Mosca, per quanto allettante sia la contropartita offerta all’Occidente: sfruttamento estero delle risorse minerarie nazionali e subentro nelle basi europee dei militari ucraini (posto che ve ne siano a sufficienza) a quelli statunitensi, da liberare per altre sfide.
Tutt’altro discorso vale per il Medioriente. Quale che sia il suo inquilino, la Casa Bianca resta in ostaggio di Israele, non potendogli negare sostegno: al netto degli interessi geostrategici sull’avamposto israeliano, pesa l’influenza ebraica interna agli Usa, unita a quella delle chiese evangeliche e dei cristiano-sionisti in genere, che condiscono di sincretismi rituali l’attesa escatologica del giorno in cui anche l’Israele vittorioso riconoscerà in Cristo il messia.
Se Israele trascinerà in guerra l’Iran, il blocco del petrolio verso l’Asia sarebbe un reagente eccitativo sul Pacifico. Le petrolmonarchie sarebbero viepiù sospinte in direzione Brics, indisposte nei confronti di chi mette a rischio i loro traffici vitali. Senza contare il surplus del supporto tecnologico-militare ai pasdaran che proverrebbe dalla Russia, intenta a preservarsi le proiezioni sui mari caldi: la destabilizzazione siriana è già servita a farle stringere solidarietà funzionali con Teheran. Analogamente il conflitto in Ucraina, mentre ha cementato la subalternità Ue a Washington, d’altra parte ha spinto la Russia nelle braccia della Cina, sua antica rivale. Mentre le cortine commerciali sollevate dall’Occidente hanno indotto Pechino a connubi con un vicinato fino a ieri in orbita statunitense. Si tratta degli effetti paradossali derivanti dalla strategia dei disimpegni regionali avviati dagli Usa per concentrarsi sul Dragone: il ritiro dall’Afghanistan, gli Accordi di Abramo, le forbici sui legami eurorussi ne sono applicazioni. Eppure Washington oggi si trova implicata all’unisono su più polveriere, in cui la cura degli equilibri sembra l’ultimo dei pensieri.
Sicché le domande sulla terza guerra mondiale, più che il “se”, riguardano il “come” e il “quando”. Il rapporto di luglio della Commissione al Congresso per la National Defence Strategy raccomanda l’omologazione delle forze alleate alle direttive Usa, piani di reclutamento e la mobilitazione totale (dall’economia all’informazione alle scuole) per affrontare il nemico alle porte. Sono segnali dello snodo epocale di un ciclo egemonico, che tipicamente si consuma con eventi traumatici, inclusa la tentazione di rovesciare il tavolo pur di non fallire.
La preparazione alla collisione talvolta la accelera. Così fu per i prodromi della Prima Guerra mondiale: lo spettro sembrava inverosimile, il logoramento tra potenze pareva circoscritto alle proiezioni colonialistiche. Finché, eccitate anche dai nazionalismi dei gregari, le linee di faglia non si intersecarono. Il riarmo, prima destinato alle propaggini geografiche delle frizioni imperialistiche, fu riconvertito contro il bersaglio grosso. La miccia si accese nella periferia balcanica e fu deflagrazione. Saggiare i ricorsi storici non significa rassegnarsi con fatalismo: il passato ingiunga di sterzare dalla traiettoria che si para innanzi.
*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense