Paolo Bustaffa – Già a fine settembre nei supermercati incominciavano ad apparire i primi richiami natalizi. Perfino le ricorrenze dei Santi e dei Morti, con i fiori, i lumini e i dolcetti, rischiano di essere travolte dai messaggi pubblicitari per le feste di fine anno. Sempre che non sia Hallowen a rimuoverli del tutto. Non è una novità, il rituale si ripete e sottrarsi alla logica del consumo compulsivo potrebbe costare l’allontanamento dalla categoria delle persone normali.
C’è un tema che fra i molti viene a riproporsi con il suo carico di perplessità e di domande ed è quello dell’attesa. Non si presenta solo nei supermercati ma soprattutto in questi luoghi appare la punta di un iceberg della fretta, della corsa al tutto e subito.
Che cosa rimane dell’attesa, di questa esperienza che porta a riflettere sul tempo, sul senso del vivere ogni giorno in pienezza, del declinare l’artificiale nelle scelte quotidiane senza smarrire la direzione del cammino umano? La domanda si confronta con i richiami che puntano ad accorciare i tempi per aumentare la spesa e rendono impazienti di fronte agli appuntamenti, in questo caso, di fine anno.
“Forse – scrive Alessandro Gisotti in prima pagine de L’Osservatore Romano del 10 ottobre – non abbiamo più voglia di aspettare. Soprattutto non vogliamo più attendere le cose a cui teniamo. Non riconosciamo più lo scorrere del tempo, ciò che rendeva ancora più desiderabile quanto volevamo ottenere. Ora vogliamo tutto e subito. E dopo che è finito quel tutto (parziale) che si è consumato troppo rapidamente siamo già proiettati sul prossimo tutto che altrettanto velocemente scomparirà”.
E così si perdono pezzi importanti della vita personale, di quella della famiglia e della comunità. Si rischia, come narrano i fatti cronaca, di bruciare le tappe anche nelle relazioni tra uomini e donne, di distruggere e di autodistruggersi nel possedere e consumare. Non bastano una critica e una condanna pur motivate e necessarie, si tratta piuttosto di pensare e proporre percorsi per non cadere nelle trappole della cultura mercantile.
Va imparata l’arte dell’attesa, un’attesa fiduciosa e operosa per non finire in una centrifuga culturale e sociale che annienta il tempo lento dell’ascolto, della preparazione, della condivisione.
Ci sono ancora maestri disposti a insegnare quest’arte che lo spirito del tempo cerca di mettere fuori gioco facendo prevalere la corsa per possedere, per conquistare? Ci sono uomini e donne, di diverse età che vivono l’attesa come tempo favorevole per crescere in umanità, per esprimersi come cittadini e non come consumatori, utenti, clienti?
Mario Calabresi, nel suo libro “Il tempo del bosco” presenta molti volti dell’attesa. Il bosco è una metafora della vita, con le sue ombre e le sue luci, i suoi rumori e i suoi silenzi, le sue sorprese e le sue regolarità, i suoi abitanti e i suoi immigrati. In questo luogo, cioè nella vita, si entra e si cammina con rispetto, si ascoltano le voci e il silenzio. Con stupore si accoglie l’annuncio di un giorno nuovo. Si impara l’arte dell’attesa.