di Padre Gianpiero Tavolato
Comunità Monastica di Ruviano (Clicca)
XXXII domenica del Tempo Ordinario – Anno B
1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12 38-44
È sempre forte, per il cristiano, la tentazione di ridurre l’evangelo a una “morale”, a un insieme di prescrizioni e divieti, volti a suscitare e stimolare nell’uomo una capacità di dono, tra i cui esiti vi sarebbe la possibilità di creare spazi di condivisione sempre più ampi. Se è innegabile che la logica del dono sia uno dei tratti essenziali della rivelazione di Dio in Gesù – nella misura in cui il dono è espressione di una gratuità che non intende “legare” l’altro (sia esso Dio o il prossimo) per ottenerne qualcosa in cambio, ma che intende fare comunione con lui –, è pur vero che il dono non nasce mai da un imperativo morale: esso è sempre manifestazione di un amore “traboccante”, che Gesù sperimenta all’interno della sua relazione con il Padre e che ogni discepolo di Gesù può ricevere, a sua volta, nell’esperienza di Lui.
Nell’episodio del cosiddetto obolo della vedova ci sono per lo meno due elementi che aiutano a capire che qui non si deve guardare al piano morale: anzitutto, mai vi si trova la parola “offerta”; in secondo luogo, le parole di Gesù, che sottolineano il gesto della vedova sono introdotte da un solenne Amen, attraverso cui Gesù è solito introdurre discorsi o parole di alto profilo rivelativo. Nei versetti precedenti questo racconto (vv. 38-40), Gesù ha mostrato le perversioni della “religione” (la vanagloria, l’ipocrisia, l’avidità) e, quando si presenta questa vedova, il suo sguardo si posa su qualcuno che, invece, gli rivela il volto che egli stesso deve assumere nella storia: il volto del dono di sé, “fino all’estremo”. Gesù invita a “guardarsi” dagli scribi vanagloriosi, ipocriti, e avidi (pur riconoscendo che vi sono uomini onesti e alla ricerca autentica di Dio anche tra di loro: cf. 12,28-34), e annunzia che la loro vita è insensata ed è sottoposta a dura condanna, la condanna di chi vive “per sé stesso”, preoccupato solo di salvare sé stesso. Per questo Marco fa seguire una potente “parabola”, che, però, non è, come altrove, il mirabile racconto fiorito dalla fantasia di Gesù, ma è una parabola “in carne e ossa”: vi è una vedova, che diviene l’oggetto dello sguardo indagatore di Gesù, che, in lei, ci propone una parabola della croce verso la quale Egli sta per andare! La vedova è presentata indubbiamente come contraltare dell’atteggiamento autosufficiente e arrogante degli scribi, divenendo in tal modo una pagina vivente di evangelo: in lei Gesù invita a cogliere un paradigma di vita… ella non vive chiusa in sé stessa, né tantomeno nelle ricchezze (che peraltro non ha), ma vive affidandosi totalmente a Dio.
E in tal modo può essere considerata una “pagina di evangelo”, che annuncia profeticamente a ogni ascoltatore/lettore dell’evangelo (e non a caso proprio alla vigilia della passione!) che occorre gettare in Dio la propria vita per vivere pienamente! Gesù, contemplando il gesto di quella donna, sottolinea per i suoi discepoli che dalla sua povertà ha dato tutto quello che aveva, tutta la vita (nell’originale greco). Gesù aveva già detto con chiarezza che «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la vita per causa mia e dell’evangelo, la salverà» (8,35): ma questa via di sequela di Cristo prospettata ai discepoli, è anzitutto la via che Gesù ha imboccato, dando la vita, via per ritrovare la vita in pienezza.
La vedova anonima dell’evangelo è, dunque, profezia per Gesù, ma è anche, e soprattutto, profezia di Gesù e, per questo, ella lo è per l’intera comunità di coloro che vorranno seguirlo! Vedere il gesto di questa donna ha dato a Gesù la misura del gesto d’amore che Lui stesso sta per compiere; la Chiesa, a cui Marco consegna questo racconto, riceve in esso una parola che la invita a tuffarsi nel cuore dell’evangelo: il dono totale di sé. Ai discepoli, invischiati oggi come allora nelle dispute sui primati (cf. 10,35-40), Gesù ancora una volta indica nel dono l’unica via identitaria che la Chiesa può avere: è questa la misura della loro vita fraterna e, dunque, della loro vita ecclesiale!