Marco Testi – Scritto per essere cantato, e per questo “Cantico”, perché solo la liberazione della voce in una musica che oltrepassi le retoriche letterarie e che si lasci trasportare dall’ “aere” e da “frate sole” potrebbe comunicare l’indicibile. L’ottavo centenario di quel Cantico, secondo alcuni studiosi composto a san Damiano nella primavera del 1225, per altri iniziato però nell’inverno dell’anno precedente, è stato celebrato (ndr) sabato 11 gennaio ad Assisi, prima nel santuario di san Damiano, poi in quello della Spogliazione.
Che sia stato composto in uno o in due (secondo altri tre) diversi momenti, il Cantico di Frate Sole rappresenta un riferimento continuo per credenti -e non- di tutte le fedi, perché Francesco ha compiuto un passo fondamentale verso l’abolizione delle frontiere razziali e culturali.
Da una parte la comunione con la natura sentita come dono divino ha fatto comprendere che tutti, a prescindere dal colore della pelle, hanno diritto ad abitare la grande casa che ci è stata donata; d’altra nel Cantico c’è una sorta di tacito ma profondo invito ad una nuova modalità di intendere la letteratura e l’arte: non solo e non più autocompiacimento e culto della bella forma, ma ispirazione dettata dall’abbandono alla vera bellezza.
E in realtà non è stata una lezione ignorata: per la prima volta un esempio umano e poetico è stato condiviso, elaborato, citato, ripercorso da scrittori e artisti lontanissimi tra di loro. Gabriele D’Annunzio, uno dei protagonisti dell’estetismo di primo Novecento, ha attinto a piene mani dal Cantico, tanto da citare esplicitamente alcune sue parti nella “Sera fiesolana”: “Laudata sii pel tuo viso di perla/ o Sera”. Per non parlare di Hesse, da giovane preda di dubbi e di incertezze, che compie due viaggi ad Assisi nei quali resta abbagliato dalle testimonianze di un uomo che considerò guida nel “peregrinare degli uomini nelle tenebre”.
E dovremmo ricordarci anche di un particolare purtroppo dimenticato, quello delle pagine terminali di “Uno nessuno e centomila” del laicissimo Pirandello, in cui il ricco protagonista si spoglia di tutto e dona, attraverso la mediazione della chiesa, i suoi averi ai poveri, facendo costruire un ospizio e chiedendo di esservi accolto come povero tra i poveri. Qui finalmente conosce la verità attraverso il contatto con la natura, con l’alba, il sole, le “nubi d’acqua”, i fili d’erba. Un nuovo battesimo, un nuovo nome e una nuova vita in un ambito apparentemente non religioso ma che non riesce a nascondere la fascinazione delle lodi di un creato vissuto in prima persona.
Senza dimenticare il Pascoli di “Il fanciullino” che rimproverava un’umanità alla ricerca di emozioni e vizi, dimentica della bellezza delle piccole cose, dei “fiori e degli uccelli, che sono de’ fanciulli la gioia più grande e consueta”, confessando il desiderio di essere tutt’uno con gli steli e i petali dei fiori.
La domanda rimane sempre la stessa, ossessiva, affascinante e incoraggiante, perché la sua sola formulazione abbatte le leggi dei mercati di ogni tempo: perché il Cantico è rimasto per sempre nella storia della letteratura e della cultura, quando chi l’ha creato aveva deciso di sparire proprio a quel mondo che invece continua a proporlo a scuola e nell’olimpo dei classici?
Chi scrive è convinto che non ci sarà mai una risposta, perché quel Cantico va oltre ogni catalogazione e moda, perché è la semplice, autentica testimonianza di una fusione completa tra vita e parola. Per questo rimane tra i tesori autentici custoditi non solo nei libri, ma soprattutto nei cuori. E nelle radici.
Fonte SIR